mercoledì 26 ottobre 2011

mercoledì 5 ottobre 2011

Il villaggio di cartone

In questo inizio autunno bizzarro, che sa più di primavera, è difficile riprendere le abitudini invernali. Se non fosse per l'uscita dei film presentati al Festival di Venezia, saremmo ancora tentati da fughe al mare o al lago.
Il due ottobre al teatro Strehler, in una Milano surrealmente afosa, è stato proiettato in anteprima l'ultimo film di Ermanno Olmi, in uscita il sette ottobre nelle sale. Il villaggio di cartone condensa in una novantina scarsa di minuti i temi più roventi della società occidentale odierna. La stanchezza di una società obnubilata dai troppi consumi, la forza selvaggia di chi è nato nel Terzo Mondo, l'aleatorietà dei valori - anche i più profondi - di fronte alle incertezze che si stanno materializzando nella seconda decade del duemila. Trama altamente introspettiva, che si esplicita all'interno di una parrocchia chiusa per carenza di fondi. L'anziano parrocco si trova solo e defraudato del suo ruolo, quando la Chiesa ormai chiusa al culto viene occupata da un gruppo di clandestini africani, che vi trovano rifugio. Il curato offre loro la sua protezione, ritrovando nell'accoglienza il significato più profondo del messaggio cristiano. Negli occhi di quegli uomini si legge la miseria di chi non ha da perdere più nulla, al punto da affrontare un viaggio disperato, al punto da non temere quel mare che tra la Libia e Lampedusa ha trascinato con sé i sogni di tanti giovani africani. I giovani clandestini si scontrano con un Primo Mondo stanco, che ha perso la gioia delle cose semplici, che sta affogando in un tenore di vita ben più elevato di quanto si possa permettere. Un Primo Mondo che sta per trovarsi il conto davanti e ha il conto in banca prosciugato. La loro reazione è contradditoria: c'è chi prova odio verso la minoranza bianca che accentra il benessere e grida vendetta; c'è chi sente di avere una possibilità e sa che quella passa per la via dell'integrazione. E cosa prova l'Occidente, patria della filosofia, di fronte alla sorte di questi figli d'Africa? Rifiuto in molti casi, pietà in alcuni, comprensione e amicizia, in pochi. Per parafrasare il divino Guccini: Dio è morto ancora, sulle carrette del mare con cui gli schiavisti del duemila giocano alla roulette con vite umane.

lunedì 19 settembre 2011

Cipro. E rien ne va plus


La meravigliosa isola che nuota nell'Egeo tra Occidente e Oriente torna ad essere oggetto di discordia.
Per metà Stato Membro dell'Unione Europea. Per metà territorio illegale. Per metà cristiana, per metà musulmana. Per metà ellenica, per metà turca. A giugno 2012 la Repubblica di Cipro dovrebbe
assumere il turno di Presidenza dell'UE. E Ankara congelerà i rapporti con l'Europa, se non entro quella data non sarà risolto il rompicapo cipriota. Ma il punto è: esiste una soluzione?

mercoledì 14 settembre 2011

domenica 11 settembre 2011

Juke box isolano

Un porticciolo minuscolo. Un vecchio che vende pane al sesamo su un carretto. Occhi assonnati e zaini pesanti. Il feri quando entra in porto è maestoso. To feri, come dicono i greci, preferendo al corretto vocabolo ploia, il suo corrispetivo internazionale, che non lascia dubbi a nessuno. Gli anziani si lanciano verso di lui per salire per primi, chi ha bambini cerca di rispondere alle loro domande a raffica sul gigante del mare. Chi ha la fortuna egoistica di godersi la magia del momento da spettatore passivo, osserva l'erede delle nere navi achee che attracca, schiaffeggiando il mare scuro, ascoltando le note immancabili di un bouzuki che escono dalla radiolina gracchiante di qualcuno, da un ipod o da un notebook. Il ritmo del rembetiko - la musica tradizionale greca, erroneamente confusa con il sirtaki di Zorba - diventa un sottofondo mentale. Accompagna le ore che scivolano lente sul ponte del feri, mentre un komboloi gira incessante tra le dita e lo sguardo si perde a inseguire i sogni che nuotano tra le onde oltre la linea dell'orizzonte. Accompagna nel salire i gradini delle hora addomentate nell'ora della siesta, quando il vento resta imprigionato nei labirinti di cubetti bianchi e azzurri. Accompagna i lunghi caffè di fronte al mare, accompagna nelle passeggiate sulla spiaggia quando il sole sta per lasciare lo spazio alla luna, accompagna nelle chiacchierate improbabili con le signore vestite di nero che ti chiedono di essere sorrette per scalare le ripide viuzze, accompagna nelle partite a tavli, accompagna nel disegnare sulla sabbia un concetto, accompagna quando sei lontano e come Ulisse vuoi rimetterti per mare, scruti un orizzonte che vedi solo tu e ti chiedi dove sono le colonne d'ercole e cosa c'è dopo e pensi che non può essere vero che è tutto piatto e cadi nel vuoto e comunque vale il rischio mettersi per mare e andare a vedere, che non si è bruti e solo ad inseguire qualche scoperta si torna a vivere.

http://www.youtube.com/watch?v=YCFXGanTx4A

Melina Mercouri performing Ta pedia tou Pireas

venerdì 2 settembre 2011

Thira

Cosa spinge un backpaper a Santorini? Posto turistico, zeppo di crocieristi armati di macchine fotografiche usa e getta, pieno spesso fino a scoppiare. Il fatto è che un backpaper, in realtà, va a Thira. Non a Santorini.Thira è il nome arcaico di questo cratere parzialmente sommerso nel mar Egeo, su cui l'uomo ha realizzato un capolavoro architettonico. Sul ferry che mi porta da Naxos alla perla delle Cicladi, incontro Despina, anche lei sola in giro per questi paesaggi tra sogno e realtà, e Irini, nativa di Santorini, che ci spiega come viaggiare per la sua isola senza scadere nel turismo massivo.
"Thira ine peninda pende kilometra mono". Parla scandito, per far capire anche me: soli cinquantacinque km di roccia vulcanica a picco sul mare. "Ke ine poli grafikò - very typical" traduce vedendo la mia aria interrogativa "alla...para turistikì sto augustu...". Fortuna e maledizione di questo angolo di paradiso: immunità dalla crisi, ma affollamento. "Pou ine ligotero turistikò?" abbozzo io in un improbabile greco. Lei mi sorride: "Winery areas - mi indica la cartina su una cartina l'area tra Fira e Kamari, dove la fertilità del terreno vulcanico ha reso l'isola uno dei principali produttori di vino d'Europa. "And north of Oia: polì grafikò is that part".
Nei giorni passati su questo lembo divino sospeso tra cielo e mare, mi è tornato spesso in mente l'aggettivo che Irini continuava a sottolineare: polì grafikò. Mi rimbalzava nei pensieri nel significato che intendeva lei: caratteristico, tipico, etnico. Come non darle ragione, quando ti trovi su una barca di legno in balia delle onde, con un tizio che ti ripete "Red beach, endaxi?" per raggiungere una spiaggia remota, o mentre una signora vestita di nero ti spiega a gesti che la sua casa dista un centinaio di scale ripide e ha bisogno di aiuto con la sporta del pane, o quando la stessa signora ti regala un grappolo d'uva e ti sussura "ise mia poli orei koritsaki".  Ma l'ho pensato spesso anche nell'accezione italiana: grafico. Perfettamente grafico. Talmente perfetto da chiedersi come possa ripetersi ogni giorno uno spettacolo di quel tipo: un mare blu intenso, un cielo terso, villaggi ordinati sull'orlo della caldera, con i loro colori sgargianti, immersi nei profumi di migliaia di fiori diversi, che ne esaltano ulteriormente la cromaticità. Poli grafikò: ancora una volta la saggezza millenaria dei greci ha fatto centro e in due parole ha riassunto la magia sconfinata di Santorini. Unica, nonostante tutto. Accattivante, nonostante tutto. Indescrivibile, nonostante tutto.  

mercoledì 18 maggio 2011

All'inizio d'Europa

11 maggio 2011. La Grecia si ferma e con lei il traffico marittimo mediterraneo. Gli hangar e lo stuolo infinito di navi al Pireo sono più fermi che in una fotografia. Nei trading floor londinesi si specula da settimane sulla bancarotta di Atene: il debito ha raggiunto livelli elevatissimi e se il governo fosse costretto a ristruturarlo allora l'intero sistema euro sarebbe a rischio. Forse la Grecia uscirebbe dall'unione monetaria e poi a ruota lo farebbe il Portogallo. Ottima prospettiva per chi è andato "long" sul dollaro e short sui CDS ellenici. Che dietro tutto questo ci siano undici milioni di persone ovviamente ai trader non gliene frega un cazzo.
Ma cosa pensano loro - questi undici milioni di persone - che da un giorno all'altro hanno visto impennarsi i prezzi di tutti i beni primari e bloccarsi gli stipendi a soglie che non permettono certamente di vivere allo standard a cui si sono abituati in questi anni?
-Il problema è molto più grande di quello che noi immaginiamo. Forse si inizia a realizzare ora la portata di questa crisi - dice Giorgos, laureando in ingegneria meccanica e contabile part-time - C'è chi ha la famiglia alle spalle. E in Grecia la famiglia è qualcosa su cui si  può veramente contare. Ma per quanto ancora? - Alle orecchie di un'italiana questo ragionamento suona disperatamente familiare.
-  C'è crisi, se ne parla, ma poi guardaci: ogni greco ha il suo caffé e un pacchetto di sigarette in tasca - riflette Philippos - insomma, per ora non abbiamo ancora perso "i fondamentali" - ironizza - ma qui se le cose non cambiano, ma radicalmente, credimi: è un gran bel casino - continua, dando un tiro avido alla sua Camel - Ma piuttosto vieni da questa parte: guarda, il sole sta tramontando e l'Acropoli laggiù è fantastico, dalla tua sedia non lo vedi bene -
- Il vero problema della Grecia non è la crisi. E' la classe politica: con i soldi che hanno in Svizzera pagheremmo tre volte il debito - mi spiega Vassiliki, mentre fuori dal suo kafeneion  sull'isola di Angistri impazza un temporale - Papandreou è figlio di un primo ministro, a sua volta figlio di un primo ministro. L'opposizione stessa cosa. Ci sono quattro famiglie che governano: è come dire che a destra c'è Kostas e a sinistra c'è Iannis, ma tra i due non c'è differenza - scuote la testa e mi passa una tazza di caffé fumante, guardando dalla finestra la pioggia che ci ha entrambe sorprese sul lungomare di Megalochori - Comunque noi abbiamo la nostra
storia, gli speculatori inglesi, bhè...noi avevamo Fidia e Socrate quando i loro antenati vivevano nelle caverne. Ora ti prendo un asciugamano, hai i capelli bagnati - i suoi occhi castani si perdono oltre la finestra affacciata sul mare mentre la ringrazio di aver aperto il suo bar per ospitarmi mentre fuori si scatenava la tempesta - Tranquilla. L'ospitalità è un concetto inventato qui in Grecia -
Finisco il mio caffé lasciando vagare anche il mio sguardo oltre quella finestra, dove l'Egeo riflette il sole che inizia a squarciare le nubi all'attenuarsi della pioggia. E mi sento all'inizio di tutto quello che sono, che siamo. E' paradossale che l'Europa rischi di finire dove è iniziata.

martedì 17 maggio 2011

Panatinaiche (IV)

Il vecchio che vende le ciambelle al sesamo a Monastiraki guarda l'Acropoli che domina la città. Due euro per quella al cioccolato. Troppo di questi tempi per gli ateniesi, troppo poco per chi arriva da lontano e catturare un lembo del fascino di questo scorcio di Atene: alle spalle la chiesa ortodossa di Pantànassa, a sinistra la moschea Tzisdaraki - eredità ottomana - che delimita il vaievieni incessante di Plaka, a destra le botteghe di antiquariato che conservano gelosamente oggetti dello splendore della Grecia ottocentesca neoindipendente e in alto - da sempre e per sempre, dove il vecchio delle ciambelle fissa lo sguardo - i marmi con cui Fidia rese immortale questa città: nonostante il suo caos, nonostante il suo debito, nonostante i suoi mille difetti.
Fotinì vende anelli e orecchini sul lato occidentale del Parco Thiseo, sorseggia un NesFrappé e racconta la storia della "greca": la forma onnipresente nella bigiotteria e nella gioielleria ellenica. "Deriva dal disegno che si incideva sugli scudi dei guerrieri nel passato. It's ancient". E si capisce al volo dal gesto enfatico che accompagna le sue parole che quello schizzo quadrangolare trascina con sé una storia di secoli, fino a lì, fino ad una bancarella posticcia di fronte al verde del parco, fino ad un paio di enormi orecchini in argento.
Kirio Theodoros ha un negozio di vecchi dischi usati e strumenti musicali. Su una sedia tinta di blu di fronte all'ingresso della bottega accarezza le corde del suo bouzouki. "Il Rembetiko - dice con un sospiro - è nato quando non la gente non aveva nulla se non la sua passione. Sotto la dominazione turca: passione per ottenere la libertà, passione per la persona amata". Altro sospiro. "Questa musica...". Non finisce la frase, lascia che le casse dello stereo all'interno diffondano le note di Frangkosyriani.  "Questo pezzo è di Vamvakaris". Ancora Frangkosyriani. "Il Maestro". Ancora e ancora Frangkosyriani.  

giovedì 21 aprile 2011

A zonzo per Cipro

Tempo di zaino, tempo di strada, tempo di  vita vera:
http://www.permesola.com/cipro

mercoledì 2 marzo 2011

Dimenticando

Come un fiume. Quando sorrideva abbassando lo sguardo. Tutto scorre. Le mani tra i capelli castani. Non ci si bagna due volte nel medesimo fiume. Parole non dette. Il divenire. L'assenza che snerva, esaurisce. "Noi - quelli di una volta - non siamo più gli stessi" (*). Dita intrecciate. Resta il balsamo del tempo che sbiadisca i ricordi, smorzi i contorni, spenga la passione. O ne dia l'illusione. Tutto scorre.



(*) Pablo Neruda

martedì 1 marzo 2011

Atene: il demos si ferma

Mentre la Libia è in bilico e tiene sospeso lo sguardo del mondo, la dolce Grecia è stata paralizzata da uno sciopero generale. Atene si è fermata: il demos ha riempito Syntagma e le zone limitrofe, per manifestare il malessere dovuto ai provvedimenti di austerity post bancarotta. Il governo Papandreu nell'occhio del ciclone: la gente non ce la fa. E si tratta della nostra Europa. Le misure faranno felice Bruxelles e l'IMF, ma stanno gettando i greci nella povertà. Purtroppo la manifestazione è degenerata in violenza, come spesso accade quando si raggiunge un limite di saturazione.
Nessuno ne parla, nessuno commenta, al di fuori dell'Ellade, ma è a un braccio di mare dalle nostre coste - come la Libia, più della Libia - è alla base di quello che siamo. O dovremmo essere. Riporto la notizia almeno qui, per chi sopporta una radicalchic innamorata della Grecia e del mondo classico.

sabato 26 febbraio 2011

Libia, il cubo di Rubik dell'Occidente

Casacche verde oliva, fucili imbracciati e una lotta in nome della libertà, mentre ci si lascia alle spalle le città liberate, verso la conquista della capitale. Uno scatto fotografico che la maggior parte di noi associa alle rivoluzioni. Quelle in nome della libertà e della democrazia. Non si tratta però di un bianconero sgualcito del Nicaragua o della mitica rivoluzione cubana, ma di una recente "pic" digitale che fa il giro del globo sulle principali testate online e arriva da una regione che è quasi mai associata alla democrazia: il Maghreb.
Terre di credo musulmano dai tempi di Carlo Martello e della battaglia di Poitiers, gli Stati del Nord Africa si stanno sollevando contro i loro dittatori. Figure dello standing morale (atroce) del famigerato Saddam Hussein. Quel tizio, se ricordate, per cui tutto si è decisa un'azione militare prodemocrazia che ha scoperchiato una situazione di vietnamita memoria. All'epoca, si diceva, l'Occidente aveva il dovere di esportare il modello democratico e lo Stato di diritto, benché la popolazione irachena non avesse dato il minimo segnale di volersi rivoltare, né di accogliere i militari liberatori con particolare entusiasmo.
Oggi la situazione è ribaltata: una popolazione - i libici - si è sollevata per liberarsi di Muamar Gheddafi, una figura a dir poco inquietante, e sta pagando la conquista della libertà da quasi quindici giorni con un bagno di sangue. Si è parlato di genocidio, di cadaveri nelle piazze di Benghasi e Misurata, di bombardamenti su Tripoli. Si è parlato di giornalisti picchiati dagli uomini del dittatore. Di mercenari assoldati per uccidere la popolazione. Si è visto di tutto, ma lentamente il movimento democratico sta assumendo controllo del Paese.
Ma dove è finito quello spirito internazionalista che aveva spinto ad esportare la democrazia? Perchè nessuno nei palazzi di vetro ha alzato la mano per dire: "Ma ragazzi, siamo andati in Iraq a farci fare gli agguati, non sarebbe  forse più ragionevole sostenere i libici, che hanno già deciso di volere uno Stato di diritto?". Senza bisogno che qualcuno in tuta mimetica glielo spieghi. No, questa volta si fa l'embargo e si congelano i patrimoni dei dittatori nelle nostre banche (che basterebbero a pagare gli studi a metà dei bambini libici tra i sei e gli otto anni probabilmente).
Paradossale, sotto certi aspetti. La logica direbbe che tutto l'Occidente avrebbe dovuto scalpitare per aiutare la Libia. Date le oggettive differenze discusse in termini di "maturità" storica.
Le differenze, a volerle trovare, sono molte. L'Occidente, l'Italia in primis, riceve notevole parte dell'approvigionamento energetico proprio dal signor Gheddafi. Il petrolio iracheno era nelle mani di Saddam e della casta sunnita che lo circondava. La mezzaluna fertile irachena è situata a migliaia di chilometri da quella frontiera tra Grecia e Turchia che divide due mondi, la Libia è lì: ad una manciata di miglia marine da Malta e Lampedusa. E alle spalle ci sono gli ottocento milioni di africani che vivono sotto la soglia di povertà e sognano quello che c'è a nord di Tripoli. Ci sono poi le condizioni economiche. L'invasione dell?Iraq ha cavalcato la nascita e l'ascesa della bolla speculativa che entusiasmava gli economisti di mezzo mondo. La rivoluzione libica avviene in un momento di profonda ridiscussione del paradigma econonomico occidentale.
Il mancato intervento a favore della liberazione libica, dunque...Cosa stavamo dicendo?

martedì 22 febbraio 2011

Interrogativi immaginando il lieto fine di una storia triste

La storia triste si intitola "Guerra civile libica". Questa è la piega presa nelle ultime settantadue ore dalla rivoluzione che da Tunisia ed Egitto è rimbalzato in terra punica. La follia di un essere umano, la sete di potere, hanno causato migliaia di vittime tra Benghazi e Tripoli e bombardamenti della flotta aerea libica contro i suoi cittadini.
Il lieto fine si chiama libertà popolare, pace, autodeterminazione e democrazia. E tutti vivano felici, contenti e con dignità (aggiungo io). La frase che normalmente sancisce un commiato dalle fiabe, in questo caso avvalla non pochi interrogativi, per chi con la Libia ha relazioni dai tempi di Scipione l'Africano.
Che ne sarà delle persone che cercano giornalmente di attraversare il Mediterraneo, per transitare dall'Inferno al Purgatorio?
Che ne sarà di quanti hanno lasciato il Paese di corsa, di quanti sono stati bombardati in queste ore per ordine del Rais?
Che ruolo avranno le donne nella nuova Libia? Saranno libere di scegliere il proprio futuro?
Che ne sarà degli appalti che le aziende italiane avevano vinto per costruire infrastrutture in Libia?
Che ne sarà dei contratti d'approvvigionamento di gas che ci assicura buona parte delle forniture?
Che ne sarà del prezzo del titolo Unicredit, di cui la Central Bank of Lybia e il principale fondo sovrano del Paese africano detengono un corposo pacchetto azionario?
Che ne sarà di chi si fregiava di essere ottimo amico di un pazzo che ordina un genocidio? Che l'ha accolto nelle proprie università, come fosse un luminare? Che ne ha assecondato gli interessi?
Iniziamo a sperare nel lieto fine, dopo verranno gli interrogativi.

sabato 12 febbraio 2011

Freedom in a twit

"La potenza della dignità umana".  Con questo Barack Obama ha identificato la rivoluzione egiziana di questo inverno. La rivoluzione di Piazza Tahir, che sicuramente otterrà un posto nelle prossime edizioni dei libri di storia: "il popolo ha parlato" e ha ribaltato una dittatura trentennale ed uno status quo che sembrava inscalfibile fino ad un paio di mesi fa. L'Egitto: spiaggie cristalline e immersioni, piramidi e mummie, immigrazione verso l'Europa, guerra del kipppur e negoziazioni, kebab e baklava in pausa pranzo. Questo era per noi occidentali il Paese attraversato dal Nilo. I suoi abitanti ci hanno raccontato il contrario in queste settimane. l'Egitto è, appunto, dignità umana. La parte più entusiasmante del racconto sono i suoi protagonisti: giovani. Intellettuali, lavoratori, donne - velate, ma donne - il comune denominatore tra loro è la data di nascita relativamente recente. La loro vittoria, accolta con un sorriso dal Presidente Obama, è una vittoria condivisa da tutti quelli che si chiedono giornalmente se sia poi così scontato che valga la legge del più forte, del più corrotto, del più ricco e soprattutto, del più vecchio. In Piazza Tahir non è andata così. Gli Stati Uniti non hanno giocato la parte dell'azionista di maggioranza ma la parte dell'osservatore dalla parte della democrazia - quella vera: che deriva dal greco demos, che significa popolo; non da ploutos, che significa ricchezza. E che implica di conseguenza che sia conquistata dalla gente e non da una lobby petrolifera estera che tenta disperatamente di mettere le mani su giacimenti di un Paese straniero*. Non ha vinto il più ricco ma il più sfruttato, il più giovane, il più svelto a comunicare con i social network, il più irriverente. Per ora la rivoluzione non ha escluso le donne, non ha assunto le forme di un jihad, non ha immeggiato alla distruzione di nessuno, ma all'evoluzione interna, all'emancipazione. Tutto il mondo resta ora con il fiato sospeso per capire come si muoverà lo scacchiere mediorientale ora che l'Egitto è libero di decidere: tutti ci auguriamo nel più equo dei modi per tutti, israeliani inclusi ovviamente. Per ora, però, noi giovani irriverenti, stufi marci di essere giudicati bamboccioni, idioti, senza principi perchè pieni di piercing, lobotomizzati dal web, ci godiamo la brezza rivoluzionaria che arriva dal Mediterraneo.

domenica 30 gennaio 2011

Vento di Primavera (La Rafle)

A volte le parole sono superfle. E non sufficienti. Come nel caso di un film che ci ricorda quanto l'essere umano può essere crudele. Vento di Primavera è la versione cinematografica dei versi indimenticabili di Primo Levi. "Meditate, che questo è stato": questo sembrano gridare le immagini che si avvicendano sullo schermo. Storia poco nota della retata nazista di ebrei francesi, detenuti al Vélodrom d'hiver prima della deportazione definitiva: quello che sconvolge è la totale assenza di invenzione, si tratta di fatti realmente accaduti purtroppo. Rose Bosch, la regista, non ha fatto che "leggere" un capitolo vero della storia di Francia e d'Europa. Nella Parigi occupata, sono troppi gli ebrei ben inseriti, secondo le forze naziste, che già progettano l'atrocità dei "campi d'oriente" - i lager - tragicamente noti alla storia. Il maresciallo Pétain asseconda i tedeschi: più di ventimila persone di tutte le età sono consegnati a tavolino nelle mani delle forze d'occupazione. Prima evacuati dalle abitazioni, poi "depositati" temporaneamente al Velodrom e poi imbarcati sui treni per la Polonia. Il tutto senza batter ciglio, senza una considerazione, senza uno scrupolo di coscienza: dialoghi diplomatici su modalità e dettagli dello sterminio si intercorrono tra Parigi e Berlino, come se si parlasse di soldatini. Le decisioni dei "piani alti" si riversano come una lastra di ghiaccio sulle vite dei bimbi di religione ebraica che vivono a Parigi. Con le loro famiglie subiscono il corso perverso della storia, vedendolo con gli occhi dell'infanzia. Occhi incontaminati, che sono costretti a crescere di corsa, al passo selvaggio della follia hitleriana. Joseph, dieci anni, sveglio come il padre Schmuel, curioso.
Simon, che avrebbe bisogno di cure mediche e di essere incoraggiato ad uscire dal guscio della timidezza.
Ed il piccolo Nonò, dolcissimo con i suoi occhioni azzurri e troppo piccolo per capire.
L'atrocità del piano hitleriano investe anche i francesi che assistono impotenti al consumo della retata: i vicini di casa, i colleghi, le infermiere che assistono i bambini. in particolare la giovane Annette, che cerca di addolcire l'esperienza infernale dei più piccoli e si oppone fino alla fine ad una storia già scritta.
Ma queste sono soltanto parole, incolonnate ordinatamente una dopo l'altra, che non possono spiegare, non possono descrivere, né far lontanamente provare quel senso di angoscia e impotenza che lascia questo film. Il dolore dei bambini si incolla al cuore. Non ho vocaboli sufficienti e non me la sento di andare oltre.
"Meditate che questo è stato".

Il Maghreb in fiamme raccontato a un bambino




C'era una volta un popolo di medici, ingegneri e architetti. Avevano costruito edifici grandiosi, di forma piramidale, che sopravvivevano al passaggio dei secoli, maestosi. Avevano per primi introdotto e applicato l'algebra e i numeri, rivoluzionando il modo di contare in tutto il mondo. Avevano imparato ad osservare le stelle e la natura in modo da conoscerne il funzionamento.Si trattava della disciplina chiamata fisica, che permetteva loro di inventare oggetti e strumenti di ogni tipo. Era una popolazione colta e orgogliosa, che conservava il proprio sapere in una biblioteca enorme, la più grande del mondo, zeppa di libri su ogni argomento. Ma poi arrivarono gli eserciti con le loro schiere di generali da Paesi lontani, che dicevano di voler "proteggere" il loro Stato, fu così che la popolazione iniziò a vivere in un Protettorato. Ci furono guerre, ci furono avvicendamenti e un bel giorno il popolo riconquistò la libertà. Ma le scuole erano ormai poche e non era così semplice lavorare, il popolo era sempre più povero e non aveva mezzi nemmeno per sopravvivere. Nonostante le figure faraoniche che si avvicendavano alla guida dello Stato dicessero che tutto andava per il meglio, la povertà aumentava. I più giovani iniziavano a partire per l'estero e tornavano in estate
, su auto scintillanti cariche di ogni bene per le loro famiglie. La situazione per chi rimaneva, invece, peggiorava: l'ultimo faraone non sembrava interessato alla mancanza di lavoro del popolo né del fatto che i suoi bambini non avessero vestiti caldi e puliti, né scarpe e tantomeno scuole sicure. I più piccoli sempre più spesso giravano scalzi ed erano costretti a lavorare. Il faraone, però, era ritratto spesso sorridente e ben vestito vicino ai potenti della Terra. Le immagini riempivano i giornali e le televisioni. Nel suo palazzo c'erano meraviglie e ricchezze di ogni tipo, molte più di quelle di cui parlavano quelli che rientravano d'estate. Gli anni passavano ed i più fortunati riuscirono a comprare un computer. Quel parallelepipedo scuro apparentemente privo di vita, era in realtà animato dalla rete volante. Si trattava di un intreccio invisibile che rimbalzava da un computer all'altro portando messaggi e ricongiungendo le persone, che fossero al Cairo, ad Alessandria o a Ismailya. E oltre il mare, dove vivevano quelli che se ne erano andati in cerca di fortuna. Attraverso la rete volante, quella scatola di metallo mostrava loro altre realtà: più dignitose e libere, dove le persone potevano esprimere le loro idee, leggere, scrivere, pensare e i bambini andare a scuola, giocare, imparare e a loro volta esprimere idee e fare progetti. La rete permetteva loro di parlarsi, con la protezione di quello schermo, e dirsi quello che pensavano veramente, senza paura di essere giudicati. Si iniziarono a domandare perchè le cose non potevano tornare come tanto tempo prima: quando costruivano edifici meravigliosi e inventavano strumenti inimmaginabili. Si dissero che forse se avessero unito le forze e avessero espresso le loro idee, qualcosa poteva mutare. Insomma, si doveva prendere il coraggio e chiedere al faraone un cambiamento che permettesse alle persone di dire la loro. Il faraone non voleva sapere di allentare le briglie e concedere al popolo il diritto di scegliere un nuovo governo: troppa era la paura di perdere i privilegi e quel palazzo meraviglioso in cui si era barricato, lontanissimo dalla realtà misera in cui viveva la gente. La rete volante, intanto, mostrava al popolo che anche nei Paesi vicini le cose non andavano bene. I problemi erano gli stessi e l'unica speranza era rivoltarsi. Dovevano farlo tutti insieme, alla stessa ora dello stesso giorno. Sulla rete le parole rimbalzavano impazzite e volavano da un capo all'altro del Paese: dalle piramidi, al grande fiume che attraversava la capitale, alle spiaggie adagiate sul Mediterraneo. "Domani in piazza Tahir", quel messaggio viaggiava ai quattro angoli del Paese e così fu. Il faraone, non appena si rese conto delle proporzioni della rabbia della gente, tentò di improgionare la rete volante: la colpevole che strizzando l'occhio alla gente, portava messaggi di rivolta veloce come il vento sahariano. Una notte d'inverno la oscurò in modo che la gente non potesse più parlarsi. Era tardi. Il popolo era infuriato e non intendeva fermarsi: il faraone doveva lasciarli liberi di decidere del proprio futuro, niente li avrebbe fermati, nemmeno l'assenza della rete. Sarebbero andati di strada in strada, di porta in porta, per ritrovarsi tutti nello stesso punto, alla stessa ora dello stesso giorno. La loro rivolta al grido "libertà" durò tre giorni e tre notti.  

Come uno dei racconti con cui Sherazad, sopravvisse mille e una notte conquistando l'amore dello sceicco persiano a cui era andata in moglie, la fiaba del popolo egiziano si interrompe, ma solo per questa notte. La conclusione verrà presto scritta dalla storia.

sabato 15 gennaio 2011

The Cranberries - Dreams (Live in Paris - 1999)






....come diceva Calderon de la Barca...la vita è un sogno, il sogno è la vita.

giovedì 13 gennaio 2011

American Life (Away we go)

Sam Mendes torna a distanza di parecchi anni dal successone American Beauty, con un film scoppiettante. Trama freschissima, cast giovane, protagonisti adorabili. E' la storia della new generation americana, ma - potere della globalizzazione - si potrebbe estendere il racconto all'Occidente in senso più ampio.
Maya Rudolph (una dolcissima e sveglia Verona) e John Krasinski (fenomenale nell'intepretazione di Burt) sono una coppia giovane in attesa del primo figlio. La notizia della gravidanza di Verona scuote la serenità in apparenza infantile" della coppia. Cercare casa. Questo è il compito che i due ragazzi si prefiggono nel paio di mesi che precede l'arrivo della piccolina. Una "casa" che sia a misura di bambino e di adulto. Che permetta loro di avere una vita di affetti, che sia, insomma, il più accogliente possibile. Il loro viaggio li porta agli estremi opposti della sterminata America: da Tucson a Montreal. Ad ogni tappa, Verona e Burt incontrano amici o parenti, che non vedevano da tempo. Ognuno di loro ha cercato di costruirsi una propria dimensione, in un mondo che ormai è lanciato verso il relativismo più totale: c'è chi cresce i figli a suon di patatine e tv, per sentirli il meno possibile, c'è chi - come reazione all'anaffettività totale della società di oggi - cerca serenità nei precetti orientali di amore continuo di sapore hippy. C'è chi, come il fratello di Burt, vede naufragare il proprio progetto di vita ed attraversa un divorzio o un abbandono. Da questo viaggio, Verona e Burt capiscono che la vera sfida è trovare un equilibrio, fatto di compromessi e lotte quotidiane. E paradossalmente, trovano la strada verso la loro vita nella normalità: una casa - normale - con un giardino - normale - in un piccolo paese - normale. Insomma, tutto quello che per la loro (la mia) generazione sta diventando così irrealizzabile e utopico, da sembrare la più desiderabile delle condizioni.
Se si ricorda per un momento American Beauty, si intuisce il cambiamento sostanziale che nel giro di un paio di decenni ha stravolto le cose: desiderabile, per la generazione di quarantenni protagonista di American Beauty, era l'eccesso. Desiderabile, per la generazione di chi ha appena trent'anni (o meno..), è la normalità: proprio quella normalità che con la seconda Grande Crisi si rischia di non trovare mai.

lunedì 10 gennaio 2011

Somewhere

A settembre decisi di non andare al cinema a vedere il film che aveva vinto il Leone d'oro. Dalla trama mi sembrava la classica pellicola su cui fare il classico arbitraggio: Blockbuster batte cinema di un buon paio di euro se non di più. Ragionamento doveroso in tempi di crisi economica, espansione dei multisala e proliferazione di commedie trash e colossal al limite del guardabile.
Mi ero fatta un'idea forse peggiore della realtà sul film diretto dalla signora Coppola, certo è però, che non valeva assolutamente un biglietto per il cinema, specie se nel weekend.
Film che vorrebbe essere impegnato, ma non ci riesce. Stephen Dorff interpreta John, un attore californiano che vive la vida loca della Los Angeles dei quartieri alti (ammesso che a Los Angeles esistano i bassi, non credo). Risiede nella suite di un hotel a numerose stelle, dove organizza festini a base di coca e sesso.
Non proprio il top dell'effetto sorpresa, insomma. Lo spettatore medio inizia a guardare l'orologio dopo il primo quarto d'ora di proiezione.
John ha una figlia adolescente che vede di rado e di cui non conosce quasi nulla. Cleo (Elle Fanning) un bel giorno si presenta alla porta del padre, dicendo che sua madre se n'era andata per qualche giorno. E i due mondi, paralleli ino a quel momento, si intersecano come due viali ad un incrocio stradale. John scopre a poco a poco le esigenze della ragazzina: rinuncia a festini erotici con fotomodelle, limita le sbronze, cerca di farla mangiare. Cosa vi viene in mente? Forse qualche miliardo di altre commedie statunitensi?
Il tempo trascorso con Cleo permette a John di pensare alla propria condizione ed al fatto che la sua vita non ha troppo senso o quanto meno troppa utilità. Quando la figlia parte per il campo estivo, John si trova nuovamente solo, in una stanza di hotel, a scegliere a quale festa andare, con che completo D&G, se con una bionda o una bruna. Insomma, c'è di che andare in depressione. E questa forse è l'unica nota salvabile e profonda di un film che obiettivamente non scorre, non cattura, non indigna, forse annoia, ma nemmeno quello al punto da farti alzare a metà. Perchè se c'è una cosa vera è che i veri sconfitti sono quelli che, come John, si fanno fumare il cervello da qualche secondo o più di gloria, potere o denaro. E deve essere obiettivamente mostruoso voltarsi indietro e capire che la propria vita è stesa sul fondo di un bidone della spazzatura, nonostante si avessero avuti tutti i mezzi per renderla splendida.
Questo credo sia stato il messaggio (ufficiale) per cui il film ha ottenuto il Leone d'Oro (soprassiedo su quali penso siano stati i messaggi ufficiosi...). Anche questa volta, sul cinema, Cannes batte Venezia, Francia batte tutti. E di larga misura.

domenica 9 gennaio 2011

sabato 8 gennaio 2011

Mail a destinatari nascosti

Salam Alaikum amici.
Il sole sta sorgendo a Sidi Bouzid. Il ché è uno degli spettacoli più belli del mondo, anche se non è incluso nella lista dei patrimoni dell'umanità. Certo, perchè chi cazzo conosce Sidi Bouzid all'UNESCO?
Ricordo in particolare un'alba: quella che vedemmo in cinque, dopo la festa per la nostra laurea. Chi era presenta ora probabilmente sentirà un moto di commozione. Eravamo ubriachi d far schifo, am di gioia. E intontiti per la musica, il fumo e tutti i complimenti hce avevamo ricevuto. Ce l'avevamo fatta: noi, dal più remoto posto di una delle più remote nazioni, ci eravamo laureati. Alla faccia di Wall Street, e di Oxford e tutto il resto. Ora tre di noi sono a Parigi a fare i netturbini sotto la pioggia e a ricevere gli insulti di chi è nato dalla parte giusta del mondo. E gli altri due, bhé...noi non riceviamo insulti e vediamo la pioggia alla televisione del caffé sulla piazza, quando abbiamo i soldi per una bibita gasata. E siamo nel nostro paese, qui, in culo al mondo: nemmeno vicino al mare per prendere un di quelle navi della speranza o della morte -che dir si voglia-per tentare di raggiungere Lampedusa. E quell'emozione che abbiamo provato, all'alba del giorno dopo la nostra laurea, quando pensavamo che forse noi cinque avremmo fatto la differenza, bhé...quell'emozione è più sbiadita di una vecchia fotografia. Tanto sbiadita da essere a malapena un ricordo. Vi abbraccio amici, voi che siete qui a chiedervi perché esistete, se tanto non avete futuro e voi, che raccogliete l'immondizia parigina e che forse vedete nelle vite dei passanti ben coperti nei loro cappotti quel futuro che abbiamo sognato. Vi abbraccio e vi auguro, a tutti, un po' di quel futuro, almeno gli avanzi, almeno quel poco per rendere la vita degna. Non ci sarò, tra tanti al caffé sulla piazza, come ci eravamo ripromessi davanti a quell'alba lontana: a fumare insieme con i capelli bianchi e tirare le somme. No, non ci sarò, perchè dovrei raccontare di aver fatto il venditore ambulante. Sì, è così. A questo mi è servito laurearmi: a fare il venditore ambulante in un paese di morti di fame, dove non esiste nemmeno la pietà del primo mondo a garantirti un kebab ogni tanto. E poi vi dovrei raccontare che un giorno di metà dicembre mi hanno sequestrato quelle poche cianfrusaglie che cercavo di vendere invano. Eh sì, vi racconterei che sono un abusivo. Mi resta abbastanza dignità per evitarvi tanta tristezza. Vi abbraccio, amici, che il vento vi porti, come recitava quella canzone che tanto amavamo nel periodo dell'università. Che il vento ci porti.

NdR: il 17 dicembre Mohamed Bouaziz si è dato fuoco. Era laureato e faceva l'ambulante. La polizia gli ha sequestrato la merce. Da questo episodio terribile sono scoppiate proteste in tutta la Tunisia. Notizia di oggi del Corriere, che riporta inoltre di scontri pesanti in Algeria per il pane. Questo nei primi giorni del 2011. In pratica sta succedendo quello che aveva scritto il Manzoni nei Promessi Sposi. Solo che era ambientato nel Seicento, se non ricordo male. Queste righe sono dedicate ai giovani che ora sono dall'altra parte del Mediterraneo. Che sono come me: sognano, leggono, si incazzano, sono innamorati o soffrono per amore, piangono di rabbia, si stupiscono. Ma sono dall'altra parte di un fottuto braccio di mare e arrivano al punto di meditare gesti folli, disperati, come quello di Mohamed.


http://www.corriere.it/esteri/11_gennaio_07/scontri-nord-africa_ef234728-1a6d-11e0-91c1-00144f02aabc.shtml