domenica 13 maggio 2012

Lisbona. Tre luoghi, quattro parole e duemilaottocentosette caratteri

Torno a scrivere di viaggi, dopo mesi di silenzi. Torno a scrivere per un luogo che mi ha colto di sorpresa ed emozionata. Lisbona: una città sottovalutata.
All'ombra della vicina Spagna, il Portogallo ne è spesso considerato un'appendice, dimenticando quanto la storia europea debba a questo piccolo Stato aggrappato all'Atlantico. Sono partita per Lisbona con il freddo dell'inverno milanese incollato addosso, con una voglia incontenibile di viaggiare, dopo mesi di stanzialità, e la copia di Sostiene Pereira nello zaino. Al mio arrivo "Lisbona brillava", come l'avevo immaginata tante volte leggendo Tabucchi. Brillava così tanto e il sole pomeridiano era così forte e il cielo tanto sfacciatamente azzurro che ho dimenticato in una manciata di secondi la nebbia lombarda. E dopo la prima mezza giornata in giro per le enormi piazze e il labirinto di vicoli della città, mi sono definitivamente innamorata di lei. Lisbona e la sua storia si riassumono in tre luoghi e quattro parole: nostalgia, eleganza, orgoglio e scoperta.
Il primo luogo è l'Alfama, dove batte il cuore. Quartiere popolare, fatto di vicoli stretti, case vecchie e tanta gente. La gente vera, quella che ha ancora voglia di avvicinarsi ad una sconosciuta immersa nella lettura di versi dipinti sugli azulejos di un muro scrostato e tradurgliene il significato in un inglese traballante. Nell'Alfama c'è la nostalgia - la celebre saudade portoghese - cantata nei fados. La si percepisce agli angoli delle strade, nei saliscendi, nei volti e soprattutto nello scorrere del tempo, al rallentatore per procrastinare il dopo e cullarsi nel passato. Non a caso il fado nacque in questo quartiere e ancora oggi è parte della vita alfacinha, specialmente alla sera, quando i vicoli si animano e nelle taverne risuonano le note della viola de fado e della guitarra portugueisa. Impossibile non sentire la saudade, ammirando l'Alfama dal miradouro Santa Luzia, bevendosi un caffé - uma bica - fuori da uno dei baretti strettissimi o ascoltando un fado improvvisato per strada.
Il secondo luogo sono le piazze centrali, a breve distanza una dall'altra: Praça da Figueira (Rossio), Praça Dom Pedro IV, Praça do Comercio. Una più speciale dell'altra. La prima - "o Rossio" per gli amici- è caratterizzata da un viavia continuo e allegro di persone. Come la limitrofa Praça Dom Pedro IV, l'eleganza la contraddistingue. Un'eleganza a tratti parigina riconoscibile nell'architettura, nelle sale da thé, nella maestosità delle fontane. Praça do Comercio, affacciata sulle acque del Tago è il simbolo di Lisbona ed il suo punto d'orgoglio: con la sua imponenza era concepita per stupire chi approdava via mare ed ancora oggi toglie il fiato a chi vi transita per la prima volta.
L'ultima tappa del viaggio è il quartiere Belem, a pochi chilometri dal centro della città. Questo sobborgo ospita un imperdibile monastero in stile manuelino e soprattutto il Monumento aos descobrimentos, eretto nel 1960 in onore alle grandi scoperte geografiche che i navigatori portoghesi hanno regalato all'umanità. Perchè è questo l'enorme lascito del Portogallo e della sua cultura all'Europa e al mondo: la curiosità insaziabile per quello che si cela oltre la linea dell'orizzonte, oltre l'Oceano, oltre il mondo noto. La scoperta: lo stesso richiamo irresistibile che anima ogni viaggio.

mercoledì 26 ottobre 2011

mercoledì 5 ottobre 2011

Il villaggio di cartone

In questo inizio autunno bizzarro, che sa più di primavera, è difficile riprendere le abitudini invernali. Se non fosse per l'uscita dei film presentati al Festival di Venezia, saremmo ancora tentati da fughe al mare o al lago.
Il due ottobre al teatro Strehler, in una Milano surrealmente afosa, è stato proiettato in anteprima l'ultimo film di Ermanno Olmi, in uscita il sette ottobre nelle sale. Il villaggio di cartone condensa in una novantina scarsa di minuti i temi più roventi della società occidentale odierna. La stanchezza di una società obnubilata dai troppi consumi, la forza selvaggia di chi è nato nel Terzo Mondo, l'aleatorietà dei valori - anche i più profondi - di fronte alle incertezze che si stanno materializzando nella seconda decade del duemila. Trama altamente introspettiva, che si esplicita all'interno di una parrocchia chiusa per carenza di fondi. L'anziano parrocco si trova solo e defraudato del suo ruolo, quando la Chiesa ormai chiusa al culto viene occupata da un gruppo di clandestini africani, che vi trovano rifugio. Il curato offre loro la sua protezione, ritrovando nell'accoglienza il significato più profondo del messaggio cristiano. Negli occhi di quegli uomini si legge la miseria di chi non ha da perdere più nulla, al punto da affrontare un viaggio disperato, al punto da non temere quel mare che tra la Libia e Lampedusa ha trascinato con sé i sogni di tanti giovani africani. I giovani clandestini si scontrano con un Primo Mondo stanco, che ha perso la gioia delle cose semplici, che sta affogando in un tenore di vita ben più elevato di quanto si possa permettere. Un Primo Mondo che sta per trovarsi il conto davanti e ha il conto in banca prosciugato. La loro reazione è contradditoria: c'è chi prova odio verso la minoranza bianca che accentra il benessere e grida vendetta; c'è chi sente di avere una possibilità e sa che quella passa per la via dell'integrazione. E cosa prova l'Occidente, patria della filosofia, di fronte alla sorte di questi figli d'Africa? Rifiuto in molti casi, pietà in alcuni, comprensione e amicizia, in pochi. Per parafrasare il divino Guccini: Dio è morto ancora, sulle carrette del mare con cui gli schiavisti del duemila giocano alla roulette con vite umane.

lunedì 19 settembre 2011

Cipro. E rien ne va plus


La meravigliosa isola che nuota nell'Egeo tra Occidente e Oriente torna ad essere oggetto di discordia.
Per metà Stato Membro dell'Unione Europea. Per metà territorio illegale. Per metà cristiana, per metà musulmana. Per metà ellenica, per metà turca. A giugno 2012 la Repubblica di Cipro dovrebbe
assumere il turno di Presidenza dell'UE. E Ankara congelerà i rapporti con l'Europa, se non entro quella data non sarà risolto il rompicapo cipriota. Ma il punto è: esiste una soluzione?

mercoledì 14 settembre 2011

domenica 11 settembre 2011

Juke box isolano

Un porticciolo minuscolo. Un vecchio che vende pane al sesamo su un carretto. Occhi assonnati e zaini pesanti. Il feri quando entra in porto è maestoso. To feri, come dicono i greci, preferendo al corretto vocabolo ploia, il suo corrispetivo internazionale, che non lascia dubbi a nessuno. Gli anziani si lanciano verso di lui per salire per primi, chi ha bambini cerca di rispondere alle loro domande a raffica sul gigante del mare. Chi ha la fortuna egoistica di godersi la magia del momento da spettatore passivo, osserva l'erede delle nere navi achee che attracca, schiaffeggiando il mare scuro, ascoltando le note immancabili di un bouzuki che escono dalla radiolina gracchiante di qualcuno, da un ipod o da un notebook. Il ritmo del rembetiko - la musica tradizionale greca, erroneamente confusa con il sirtaki di Zorba - diventa un sottofondo mentale. Accompagna le ore che scivolano lente sul ponte del feri, mentre un komboloi gira incessante tra le dita e lo sguardo si perde a inseguire i sogni che nuotano tra le onde oltre la linea dell'orizzonte. Accompagna nel salire i gradini delle hora addomentate nell'ora della siesta, quando il vento resta imprigionato nei labirinti di cubetti bianchi e azzurri. Accompagna i lunghi caffè di fronte al mare, accompagna nelle passeggiate sulla spiaggia quando il sole sta per lasciare lo spazio alla luna, accompagna nelle chiacchierate improbabili con le signore vestite di nero che ti chiedono di essere sorrette per scalare le ripide viuzze, accompagna nelle partite a tavli, accompagna nel disegnare sulla sabbia un concetto, accompagna quando sei lontano e come Ulisse vuoi rimetterti per mare, scruti un orizzonte che vedi solo tu e ti chiedi dove sono le colonne d'ercole e cosa c'è dopo e pensi che non può essere vero che è tutto piatto e cadi nel vuoto e comunque vale il rischio mettersi per mare e andare a vedere, che non si è bruti e solo ad inseguire qualche scoperta si torna a vivere.

http://www.youtube.com/watch?v=YCFXGanTx4A

Melina Mercouri performing Ta pedia tou Pireas

venerdì 2 settembre 2011

Thira

Cosa spinge un backpaper a Santorini? Posto turistico, zeppo di crocieristi armati di macchine fotografiche usa e getta, pieno spesso fino a scoppiare. Il fatto è che un backpaper, in realtà, va a Thira. Non a Santorini.Thira è il nome arcaico di questo cratere parzialmente sommerso nel mar Egeo, su cui l'uomo ha realizzato un capolavoro architettonico. Sul ferry che mi porta da Naxos alla perla delle Cicladi, incontro Despina, anche lei sola in giro per questi paesaggi tra sogno e realtà, e Irini, nativa di Santorini, che ci spiega come viaggiare per la sua isola senza scadere nel turismo massivo.
"Thira ine peninda pende kilometra mono". Parla scandito, per far capire anche me: soli cinquantacinque km di roccia vulcanica a picco sul mare. "Ke ine poli grafikò - very typical" traduce vedendo la mia aria interrogativa "alla...para turistikì sto augustu...". Fortuna e maledizione di questo angolo di paradiso: immunità dalla crisi, ma affollamento. "Pou ine ligotero turistikò?" abbozzo io in un improbabile greco. Lei mi sorride: "Winery areas - mi indica la cartina su una cartina l'area tra Fira e Kamari, dove la fertilità del terreno vulcanico ha reso l'isola uno dei principali produttori di vino d'Europa. "And north of Oia: polì grafikò is that part".
Nei giorni passati su questo lembo divino sospeso tra cielo e mare, mi è tornato spesso in mente l'aggettivo che Irini continuava a sottolineare: polì grafikò. Mi rimbalzava nei pensieri nel significato che intendeva lei: caratteristico, tipico, etnico. Come non darle ragione, quando ti trovi su una barca di legno in balia delle onde, con un tizio che ti ripete "Red beach, endaxi?" per raggiungere una spiaggia remota, o mentre una signora vestita di nero ti spiega a gesti che la sua casa dista un centinaio di scale ripide e ha bisogno di aiuto con la sporta del pane, o quando la stessa signora ti regala un grappolo d'uva e ti sussura "ise mia poli orei koritsaki".  Ma l'ho pensato spesso anche nell'accezione italiana: grafico. Perfettamente grafico. Talmente perfetto da chiedersi come possa ripetersi ogni giorno uno spettacolo di quel tipo: un mare blu intenso, un cielo terso, villaggi ordinati sull'orlo della caldera, con i loro colori sgargianti, immersi nei profumi di migliaia di fiori diversi, che ne esaltano ulteriormente la cromaticità. Poli grafikò: ancora una volta la saggezza millenaria dei greci ha fatto centro e in due parole ha riassunto la magia sconfinata di Santorini. Unica, nonostante tutto. Accattivante, nonostante tutto. Indescrivibile, nonostante tutto.