martedì 15 dicembre 2009

Dodecaneso

Nelle versioni di greco si trovava sistematicamente la parola "δοδεκανησος" in una delle sue declinazioni, inserita nel bel mezzo di una frase, come una pennellata fuori posto al centro di un dipinto. Partiva immediatamente il "totocaso". Genitivo: "del Dodecaneso"? O forse dativo: "al Dodecaneso"? Se poi si intravedeva una qualche preposizione seminata nel raggio di dieci parole prima e dieci parole dopo, si entrava ufficialmente nel campo della divinazione: "δοδεκανησος" associato ad una preposizione poteva infatti significare di tutto. "Dal Dodecaneso, verso il Dodecaneso, attraverso il Dodecaneso, originario del Dodecaneso, per qualcuno che si trova nel Dodecaneso...". C'era chi a quel punto iniziava a lanciare la moneta da 500 lire in aria per decidere cosa scrivere, altri passavano le due ore incollati al Rocci (il dizionario di greco antico che opera semimonopolisticamente sul mercato italiano) sperando di trovare una frase fatta (invano: non si trattava dell'accondiscendente "IL" di latino, ma del famigerato Rocci, incubo di generazioni di studenti dalla conquista romana dell'Ellade); molti offrivano soldi per un fogliettino con la traduzione; alcuni tentavano la sorte e si inventavano una "propria" interpretazione dei fatti. Io ero tra questi: adoravo il greco antico perchè, al contrario del latino, permetteva molta più creatività. Non accettavo l'idea di tradurre le versioni degli altri: io volevo scrivere la "mia" versione, che cazzo!
Mi lanciavo quindi a costruire una storia in cui mercanti di spezie e tessuti, incuranti delle bizze di Poseidon, solcavano il Mar Egeo per portare i prodotti d'Asia minore e Creta agli empori di Rodi, Kos e Patmos, dove venivano accolti dalla popolazione locale desiderosa di acquistare olii profumati e ascoltare i loro racconti: si narrava che il re di Creta nascondesse nello sfarzoso palazzo reale il figlio mostruoso e cannibale, che tra il Bosforo e lo stretto dei Dardanelli i valorosi greci dalle navi veloci avessero combattuto una guerra infinita con il popolo di re Priamo per strappare ai troiani dalle armature scintillanti la bellissima Elena, che le prodezze di Achille Pelide erano state inutili e soltanto il multiforme ingegno del divino Ulisse aveva assicurato la vittoria agli Atridi, che nella democratica Atene un filosofo rivoluzionario affermasse che è saggio colui che sa di non sapere e che navigando verso nord si incontrasse un'isola verdeggiante dove una poetessa dai capelli neri corvino e le sue amanti vivevano componendo versi e suonando la cetra.
Per noi studenti del famigerato liceo Alfieri, torturati dalle perfide versioni appiopateci dalla storica prof. Zunino, questi luoghi erano un po' come l'isola-che-non c'è o Paperopoli: non li immaginavamo come posti veri, ma come "non-luoghi".
Agosto 2003, un mese dopo la maturità: mi trovavo al check-in con il mio zaino in spalla ed un biglietto dell'Aegean per Rodi in mano. Mi sentivo euforica: stavo andando nel mitologico Dodecaneso, lambito dalle acque dell'epico Mar Egeo, all'estremità orientale della filosofica terra di Grecia! Quando l'aereo iniziò la discesa, iniziai a scorgere la costellazione di dodici isole circondate di blu. Oltrepassai l'uscita dell'aereomobile accompagnata da un sorridente "Welcome to Greece" della hostess e fui investita dal caldo secco e ventoso dell'isola di Rodi e dal suo intenso profumo di macchia mediterranea. La bandiera bianca e blu sventolava allegra in fondo alla pista, dove si stagliava il piccolo terminal dell'aereoporto - il più piccolo che avessi mai visto: dietro all'edificio ed ai suoi lati un'altura brulla, di fronte- oltre alla pista - uno strapiombo si lanciava nell'Egeo. Erano le tre del pomeriggio, le cicale facevano un chiasso notevole ed io ero nel Dodecanneso: realizzai all'istante che quello sarebbe stato un viaggio speciale e che stavo già amando quel posto, come avevo amato la letteratura greca e le versioni creative e come avrei amato Creta, Santorini, Kos, Kalimnos e Patmos negli anni seguenti.
Viversi queste isole è al tempo stesso emozionante e doloroso.
La parte razionale di noi non può che essere messa a dura prova: il corso della storia ha portato la Grecia ad essere uno dei Paesi con il più alto tasso di corruzione in Europa e nel 2009 registerà crescita negativa. Atene non ha un piano regolatore, le aree rurali della Grecia peninsulare sono mal connesse tra loro, le strade sono definibili in molti modi, ma non "europee" ed il sistema burocratico pesa sulle finanze elleniche come un macigno sul dorso di una piccola coccinella. La Grecia ha undici milioni di abitanti ed il greco moderno è decisamente meno parlato dell'italiano. La sua letteratura e musica ha ormai un ruolo marginale all'estero. Quello che fa più male è capire che per favorire il turismo sulle isole, i greci hanno creato centri di villeggiatura "ad-hoc" per turisti nordeuropei assettati di birra, che sbarcano come barbari e passano vacanze tra un pub e l'altro a far risse notturne da ubriachi. Ignorando ovviamente di trovarsi nella terra di Platone ed Aristotele. Del resto il turismo è la risorsa economica principale (da solo contribuisce al 15% del PIL) e sicuramente si crea maggior valore da un adolescente inglese in cerca di discoteche e chupitos che dalla manciata di backpackers che hanno studiato greco antico e passano il viaggio a fotografare ogni pietra dei siti archeologici e a leggere i cartelli perchè si ricordano l'alfabeto.
Al di là dei dati statistici e delle "evidenze", esiste il risvolto irrazionale di un viaggio in Grecia. Lo vive chi si muove in punta di piedi verso la "zona d'ombra" che non si vede e chiede se per favore può entrare nella Grecia dei greci. Chi si lascia prendere per mano dai greci sentirà che la storia a volte è un cerchio e quando ti sembra di essere alla fine, stai in realtà partendo dall'inizio. Basta un "Eυφχαριστό πολί" tentennante alla signora che vi sta prenotando un posto sul traghetto per l'isola vicina per scoperchiare il Vaso di Pandora e tuffarvi nel mondo classico. I greci sono orgogliosi del loro passato e non esiteranno a condividerlo con voi se vi mostrerete interessati a capirlo: ad esempio, vi verrà spiegato che a Rodi molti anziani parlano italiano correttamente perchè lo studiarono durante l'occupazione fascista dell'isola. Apprenderete che gli ortodossi fanno il segno della croce in verticale, che il ritmo unico della musica greca è dato da una specie di chitarra chiamata bouzouki, che San Giovanni ha avuto la rivelazione a Patmos in una caverna, dove un prete ortodosso accoglie i visitatori e tramanda la storia in sola lingua greca. Si impara che la piazza principale di Kos è stata edificata dagli italiani, che ancora oggi i ragazzi invitano le ragazze a ballare lanciando loro boccioli di rose, che l'ospite in Grecia è sacro ancora oggi, come ai tempi delle peregrinazioni dell'astuto Ulisse, che le divinità olimpiche erano venerate nei punti più alti delle isole: tra l'azzurro del cielo ed il blu intenso dell'Egeo. Tra le rovine delle acropoli e dei templi il cerchio della storia parte dall'inizio, da quando un misterioso poeta cieco ispirato da una Musa componeva i versi più belli che siano stati scritti e da quando si passeggiava in un cortile rettangolare immaginando un motore immobile. La mia Grecia è quella del biondo Apollo e del valoroso Achille e si ritrova nell'eleganza aristocratica dei greci, nella loro pacatezza, nell'entusiasmo con cui sanno accogliere. La mia Grecia è quella di una signora attempata in una stretta bottega sulla costa meridionale di Kos, che mi ha spiegato, mentre le pagavo una Pepsi ghiacciata, che "Peripatos" non vuol dire "passeggiare o passeggiata" come avevo supposto io vedendo la scritta su un giornale. Vuol dire "viaggio" in greco moderno. Il viaggio, che porta alla scoperta, all'apprendimento. Che è il senso della filosofia. Quella filosofia che si faceva al "Peripatos" di Aristotele.
E in un soffio, ti trovi all'inizio del cerchio.

giovedì 10 dicembre 2009

Stockholm

Da piccola avevo un libro illustrato delle fiabe dei fratelli Grimm. La mia preferita era Hansel e Gretel: ogni sera volevo che mi venisse letta e ne avevo imparato le parole che corrispondevano alle pagine illustrate. Mi chiedevo se esistessero veramente foreste così enormi da perdersi all'interno e case con tetti tanto aguzzi e grandi finestre come quella della strega che viveva nel bosco. E la sua era adirittura di biscotto allo zenzero! Che cosa fosse lo zenzero non mi era chiarissimo, nonostante mia madre mi avesse vagamente spiegato che era simile allo zafferano ma più scuro e con un gusto più intenso.
Molti anni dopo ho trovato la risposta a tutte le domande che mi ponevo ascoltando la fiaba di Hansel e Gretel: ho finalmente capito cosa immaginavano i Grimm quando mi sono trovata di fronte per la prima volta un sobborgo residenziale di Stoccolma, immerso nel verde e costellato da bellissime case con tetti spioventi.
La capitale della Svezia è la città, tra quelle che ho visto, che ha maggiormente superato le mie attese. Quando sono atterrata ad Arlanda la prima volta per affrontare la mia prima settimana svedese, pensavo di trovare una pseudo Copenhagen: niente a che vedere con la seduta e troppo turistica cugina danese. Stoccolma si sviluppa su un arcipelago di isole, ognuna connotata da caratteristiche archittettoniche ed attrattive proprie: Sodermalm - il distretto giovane in stile liberty; Skansen - un vero "gioco da ragazzi" o meglio da bambini, Gamla Stan - il cuore della città risalente al XIII secolo; Ostermalm - il volto moderno della Svezia.
Il ritmo della città ha un incredibile potere rilassante, almeno per me. Amo in particolare Sodermalm, il quartiere residenziale meridionale decisamente meno turistico. Di giorno è affollato di ragazzi e persone che lavorano o studiano in zona e che la sera affollano i molti pub e ristoranti. Usciti dalla metro (Slussen) ci si trova su una grande piazza dove regna sovrana una Rokeri - un affumicatoio di pesce (ai veri non-global consiglio caldamente una consumazione "alla cieca", cioè evitando il banale salmone: io ad esempio amo lo "stromming smorbrot"...). Non c'è nulla da vedere, nulla da fotografare a Sodermalm: c'è soltanto da osservare ed imparare. Per questo è il mio posto preferito a Stoccolma: qui ho scoperto che molti uffici sono collegati ai centri commerciali da tunnel sotterranei per evitare di uscire al freddo in inverno; ho provato a tirare con la mazza da hockey in un negozio di articoli sportivi; mi è stato detto che i "leggings" sono solo estivi, d'inverno si indossano le "tights".
Per chi non accetta il fatto diventare adulto, Stoccolma è il luogo più divertente possibile: tutto quello che le grigissime e tristi persone "cresciute" dicono che "non esiste" perchè è "frutto della fantasia" a Stoccolma c'è.
Ricordate quando desideravate che le giornate non finissero per continuare a giocare? A Stoccolma d'estate il sole resta alto fino a notte fonda.
Avreste fatto di tutto per vedere l'albero cavo di Pippi Calzelunghe da cui uscivano le gazzose e le brioche alla cannella? A Djurgarden - Skansen - troverete il parco dedicato ad Astrid Linger, dove non solo vedrete l'albero cavo, ma incontrerete anche il cavallo a pois di Pippi. Amavate arrampicarvi su tutto quello che era più alto di voi? Nei parchi di Stoccolma vi potrete lanciare in arrampicate selvaggie sulle pareti artificiali aperte al pubblico.
Avete letto almeno tre volte "Pattini d'argento"? Prendetevi un momento per voi stessi in inverno e volate a Stoccolma per una pattinata in centro città: la pista ghiacciata, i palazzi storici intorno, la sorridente popolazione svedese che pratica lo sport nazionale vi faranno tuffare nelle pagine del vostro libro.
Gli svedesi hanno mantenuto un forte attaccamento alle loro tradizioni.
Il 21 giugno si festeggia il giorno che non finisce mai con concerti più o meno improvvisati in strada e picnic notturni nei sobborghi al mare. In estate si fa sport all'aperto anche in città: chi è abituato al rito "auto-idroscalo-corsetta tra un mare di gente-auto-casa doccia" si sentirà stordito quando vedrà la quantità di aree verdi presenti a Stoccolma. Volete fare Nordic walking? Andata al Karlsberg Slottpark. Volete pattinare? Vanadislunden park. Volete prendere il sole? Humlegarden, in centro, perchè dopo potrebbe venirvi voglia di far shopping e sarete comodi ai malls dei negozi.
A dicembre le luminarie della città sembrano un abito da sera luccicante che la rende luminosa nonostante il buio dell'inverno nordico. La gente si incontra nei mercatini di addobbi natalizi ed artigianato locale e si riunisce a chiacchierare alle estremità di questi, dove vengono accesi piccoli falò attorno a cui si può sostare senza essere travolti dal freddo. Ci si scalda anche con un buon bicchiere di Glogg caldo, un estratto di bacche scandinave servito con uvetta e mandorle sgusciate ed accompagnato dai biscotti di Natale. Lo offrono ai coraggiosi che si avventurano nei mercatini dopo le quattro del pomeriggio: se il clima è algido, la vitalità degli svedesi e la loro gentilezza compensano abbondantemente. Vi troverete a ballare le Christmas carols intorno agli imponenti alberi di Natale insieme a loro, la tradizione vuole che si danzi in cerchio per mano e nessuno si tira indietro: vi troverete per mano a signore in costume scandinavo, giovani punk, immigrati srilanchesi e bambini biondissimi. Stoccolma è armonica: non si grida, non si alzano i toni eccessivamente, non ci si perde nello stress perchè la vita è concepita a misura di bambino anche per gli adulti e quindi non si perde la voglia di sognare.
A Stoccolma, adirittura, troverete le casette fatte di biscotti allo zenzero delle fiabe.
La casetta nella fotografia è costruita con i Pepperkakor - biscotti natalizi molto speziati sfornati nelle forme più disparate ed immancabili con il Glogg. E' usanza inserire le "casette biscottate" tra i tanti addobbi natalizi che adornano le case degli svedesi a dicembre (ad esempio sotto gli alberi di Natale).
Suggerimenti e idee:

martedì 8 dicembre 2009

Paris

Non ho mai capito come la padrona della lavanderia in rue Lebon potesse dirmi "mademoiselle, vous etes toujours belle comme un coeur" ogni sabato mattina, quando sul far delle undici mi presentavo a ritirare le giacche: avevo addosso una settimana di trading nella più tremenda recessione dal 1929, mangiavo e dormivo male, ero molto nervosa per la tesi, non facevo una lampada da mesi e normalmente avevo addosso un paio di jeans modello hip hop ed una felpa. Data la sua età non troppo avanzata ho da subito escluso a priori che fosse cieca, il ché voleva dire che mi stava prendendo per il culo, con quel suo sorriso radioso.
Ricordatelo: i parigini sono falsamente gentili e adorano prendere per il culo, vi dovete adattare.
Iniziai ben presto a controbattere: "Je vous remercie madame. Et vous, vous etes toujours en pleine forme". Considerate che la mia interlocutrice era alta più o meno 1.60 e doveva pesare un'ottantina di chili, arrotondando per difetto.
Da rue Lebon, proseguivo per rue Rennequin, dove mi perdevo tra il vociare della gente tra i banchetti del mercato settimanale.
Parigi ha una tradizione molto antica di grandi mercati: leggete almeno alcune parti de "Le Ventre de Paris" di Zola e poi visitate il mercato di Belleville (13 arr) e la rue de Montorgeuil (1 arr): capirete che l'atmosfera "chez les marchands" è ancora quella descritta dal grande autore francese. Se come me amate la commistione culturale consiglio in particolare Belleville, che rappresenta il trionfo della Francia multietnica. Si trovano spezie e cibi maghrebini, artigianato africano, qualunque tipo di oggetto vi possa servire, anche il più strano. E' disarmante la cura estetica che i marchand mettono nell'esporre la merce: trovo che i banchi del pesce siano i più spettacolari, con il loro trabordare di coquillage atlantiche. Ogni sabato il vecchio del banchetto del pesce mi ripeteva che "Moi je suis pas d'ici, je suis breton, vous connaissez la Bretagne?". Rispondevo ogni sabato di sì, che ero stata da piccola e proseguivo verso rue de Courcelles dove mi aspettava il momento dolce della settimana: colazione al Parc Monceau. Starete pensando: "Sul tema parchi Londra batte Parigi 10 a 0". In effetti le aree verdi sono più ridotte, meno imponenti e decisamente meno "divertenti": non si possono fare grandiose pedalate o pattinate se non al Bois de Boulogne, all'estremo ovest della città. Tuttavia, i parchi parigini sono come il resto della città: tenuti alla perfezione, circondati da palazzi bellissimi, sfacciatamente belli. Merita una passeggiata soprattutto le Jardin du Luxembourg (6 arr.), voluto da Maria de Medici. Tra fontane, statue e fiori non vi mancheranno le lunghe distese d'erba di Hyde Park o del Regent. E soprattutto se ci andrete per uno spuntino non vi mancheranno gli orridi sandwich di Subway.
Abbandonate l´idea della dieta proteica a Parigi. In realtá, conviene abbandonare qualunque idea di dieta a Parigi: nessuna persona di buon senso potrebbe resistere di fronte alle fragranze emanate dalla prima boulangerie sul proprio percorso. A Parigi non sfornano brioche, ma opere d´arte, specie in alcune location storiche (Pain de sucre, rue Rambuteau; Alsace, rue Guillaume Tell; Strorher, rue de Montorgeuil; i vari Paul sparsi in città e la piccola boulangerie dei coniugi Guet in rue de Courcelles). Rue de Courcelles e´ stretta, costellata di lampioni vieux Paris e di edifici mansardati. Da decenni i coniugi Guet deliziano i palati dell´arrodissement in una bottega stretta all´angolo con rue Demours. Affrontavo l´onnipresente coda di parigini in lotta per la famigerata baguette campagnarde, l´ammiraglia dei prodotti dei coniugi: avremmo atteso tutti ore per accapararci un pain aux raisins e una baguette. Siete a Parigi: dimenticate le norme igieniche e quando arriva il vostro turno in una boulangerie, non indugiate, prendete la baguette di un metro avvolta in dieci centimetri quadri di tovagliolo senza tentare di farvela tagliare e mettere in una busta del pane come si fa nel resto del primo mondo. Eviterete di farvi insultare e di innervosirvi inultimente: uscite e gustatevi la baguette croccante e tiepida come sanno creare soltanto a Parigi, se non gioverá troppo all´indice di massa corporeo di sicuro vi rafforzerá il sistema immunitario.
Se sosterete abbastanza a lungo a Parigi capirete che é essenziale imparare ad essere aggressivi in francese. Io sono un soggetto incapace di discutere e di alzare la voce, ma a Parigi ho dovuto sforzarmi e dopo molti sforzi posso dire di aver raggiunto notevoli risultati. Ho superato il test del "mandare a cagare un parigino" in un negozio Darty sull´Avenue de Wagram. Ogni sabato per un paio di mesi, io e la mia coloc Gisela a turno cercavamo di risolvere il problema piú grave che puó succedere a due persone all´estero che devono consegnare una tesi di laurea il semestre successivo: essere prive di connessione veloce a internet. Non avevamo la lavatrice, il riscaldamento andava a singhiozzi e dividevamo l´appartamente con tre messicane a cui la civiltá non era mai passata vicino. Ci si adatta a tutto: lavanderie a gettoni, bucati a scrocco dai vicini, pigiami di pail abbatti-libido, guacamole lasciato giorni e giorni fuori dal frigo (non aggiungo altro), botillones organizzati dalle tre di notte in poi rigorosamente in settimana..ma senza internet non potevamo vivere, considerando che avevamo in teoria sottoscritto un abbonamento per wireless e adsl con l´operatore Darty. Rendetevi conto che non potevo vedere la Littizzetto su youtube! Ogni sabato cercavamo disperatamente di capire perché il modem non desse segnali e perché dovessimo pagare per non avere connessione, se non il segnale wifi sul mio pc craccato alla sera tardi dalle gentili vicine del terzo piano (avevo italianamente segnato di nascosto la password un giorno che ero salita implorando di fare una lavatrice con la mia faccia d´angelo scandinaveggiante). La situazione era: chiamavamo il numero d´assistenza, dicevano di andare in un negozio. Al negozio dicevano di chiamare l´assistenza. Un sabato, Gisela ed io affrontammo la situazione dopo un dolcissimo pain aux raisin dei coniugi Guet che ci aveva ben disposte al dialogo pacifico. L´impiegato a cui spiegammo per la milionesima volta la situazione sollevó un sopracciglio (tipico dei parigini che stanno per mandarti a cagare) e ci mitraglió con un "Jpeux rien faire lá, fautqvous appeliez l´assistance". Tentammo di spiegargli che avevamo chiamato una cinquantina di volte e che fooooorse il modem era da sostituire. I parigini amano ripetere: "Mesdemoiselle, jpeux rien faire lá, fautqvous appeliez l´assistance". Per la prima volta ho risposto da nervosa a qualcuno: "Mais putain, l'operateur i'madit qui'fautqjvienne chercher un nouveau modem! C'est vous qui va mdonner ça car jvais sortir d'ici seulement avec" (il tutto con la dovuta impennata di timbro sull'"avec"). In sequenza: il tizio scatta al magazzino a prendermi il modem, Gisela si gira, mi guarda a bocca aperta e commenta "Joder, parecias parisina". Da quel sabato abbiamo finalmente iniziato a scrivere le nostre tesi.
Il mio final paper- un copypaste imbarazzante delle note degli analisti della mia banca- veniva scritto nelle brevi pause che mi concedevo da mostre, cinema e musei. Qualunque guida compriate spenderà pagine ad illustrare i musei di punta della capitale, per non parlare dei monumenti. Io non sono per il turismo "da guida", tanti luoghi possono essere visitati in modo alternativo se si hanno a disposizioni un po' di giorni.
Al posto del giro sul batello, andate a bervi un drink o a cena su una "péniche": si tratta di batelli attraccati lungo la Senna adibiti a locale. Una serata al Charleston ad esempio - quai de la Gare (13 arr.) - non ha un "fair value" definibile in valuta. Invece di salire sulla Tour Eiffel insieme ad altri migliaia di persone, comprate un "bouquin" lungo la Senna (un libro usato)- ad esempio "Les fleurs du mal" - e prendetevi un paio d'ore per leggerlo sul prato dei Champs de Mars, con les Invalides alle spalle e rive droite di fronte. Non perdete tempo sugli Champs Elysées: sono assolutamente banali, dato tutto quello che offre la città. Piuttosto perdetevi a passeggiare tra il 16 ed 8 arr ed il 17 arr.: la Parigi dei parigini di nascita. Troverete banchi di fiori, negozietti e botteghe lontani anni luce dai megastores degli Champs, piccoli cafè e bistrots non assaltati dai turisti, dove godervi le pagine di un libro o un po' di musica. Una pausa imperdibile per gli amanti delle tisane è Mariage Frères sul Faubourg de Saint-Honoré (8 arr.): la famiglia Mariage apparteneva alla casta dei "hommes honorables" del XVII secolo, in quanto intrattenevano commerci di thè e spezie con la Persia e le Indie. I discendenti dei Mariage aprirono il primo salon de thé a Parigi nel 1854: un thé dai Mariage insomma, avvicina più alla storia di una foto scattata all'Arc de Triomphe da esibire come trofeo una volta rientrati a casa.
Ci sono due luoghi di Parigi che credo non sazino mai: il quinto piano del Musée d'Orsay e la Maison Européenne de la photographie (nel Marais). Il primo non ha bisogno di presentazioni: l'ala impressionista che racchiude i capolavori di Monet, Degas, Manet, Gauguin e compagni. Ho passato lunghi momenti imbambolata di fronte alle ballerine di Degas ed alla Provenza di Monet: il tempo passati a guardarli è sempre poco, anche se resti ore a lasciarti invadere da quei colori. Così come è possibile uscire dalla "Maison de photo" prima che un inserviente faccia gentilmente notare che stanno chiudendo: si tratta della raccolta di foto giornalistiche più incredibili che ho visto. L'ho scoperta con la mia migliore amica una domenica pomeriggio e ci sono tornata diversi pomeriggi, a togliermi di dosso la stanchezza. Questi due posti, più di ogni altro, vi fanno capire Parigi davvero: una città umanamente glaciale, dai ritmi selvaggi, connotata dalla solitudine. Ma affascinante oltre ogni descrivibilità e dunque, da conquistarsi.


Suggerimenti e idee:


venerdì 4 dicembre 2009

Diari di viaggio

Amo viaggiare alla follia. E per viaggiare intendo giungere in un luogo, lasciarsi prendere per mano dai suoi abitanti ed immergersi a fondo nella loro cultura e nelle loro abitudini.
E' in queste preziosissime parentesi dalla vita di tutti i giorni che ho imparato quel poco di davvero importante che so. Non ricordo quale autore di letteratura di viaggio ha scritto "La vita è come un libro. Se non viaggi ne leggi soltanto la prima pagina".
Diari di viaggio è dedicato ai miei due nonni, che mi hanno insegnato ad essere curiosa, a non convincermi di sapere abbastanza, ad ascoltare la gente di ogni colore. E' anche dedicato a mia madre, che mi ha insegnato a stare in piedi sulle mie gambe ma che mi aiuta a rialzarmi dalle cadute ancora adesso e che è la persona a cui, più di tutte, vorrei assomigliare almeno un po'.
Diari di viaggio è un invito a leggere le pagine di vite che seguono la prima, ad appassionarsi al proprio romanzo personale e scorrerlo con avidità, parola dopo parola, frase dopo frase, chilometro dopo chilometro.



martedì 1 dicembre 2009

Diarios de motocicleta


Le stazioni radiofoniche passavano "This Love" dei Maroon 5 ad ogni ora del giorno. Io e la mia migliore amica abbiamo sempre amato cantare in macchina quando fa caldo e puoi tenere giù i finestrini. Nelle scorribande di quel periodo - era maggio 2004 - stavamo cercando di perfezionare l'interpretazione di quel brano: dopo aver stabilito che il ritornello diceva "this love has taken its toll on me" e non "it's taking it all from me" io stavo tentando di americanizzare il più possibile il mio accento da east-ender mentre Giulia era lanciatissima sulla prima strofa con il suo inglese da high-school student del Michigan. Prese dalla nostra performance canora ci accorgemmo di esserci lasciate il cinema Colosseo alle spalle quando intravedemmo l'incrocio in Porta Venezia. Dovevamo vedere l'appena uscito Diarios de Motocicleta, di Salles: il film sul Che prima di essere il Che, tratto dall'omonimo diario di viaggio di Ernesto Guevara, nonchè mio libro preferito.
Nel 1952, diversi anni prima della rivoluzione cubana, Ernesto Guevara De La Serna (Gabriel Garcia Bernal), studente di medicina, ed Alberto Granado (Rodrigo De La Serna), biochimico, partono da Buenos Aires con l'obiettivo di raggiungere Caracas. Avrebbero viaggiato per oltre 14,000 chilometri attraversando l'America Latina, in sella alla "Poderosa": la fedele motocicletta Norton 500 classe 1939 di Granado. Si dirigono verso sud, alla volta della Patagonia cilena, da dove risalgono lungo la Cordigliera delle Ande verso il Perù. Sulle strade sterrate della "Maiuscola America" ogni chilometro percorso sulla vechia moto è una conquista. I due affrontano il disarmante silenzio della Patagonia, le sue distese disabitate e le pianure schiaffeggiate dal vento che all'orizzonte sembrano convergere con il cielo. Attraversano il Cile e le sue variazioni cromatiche in equilibrio tra le Ande ed il Pacifico. Giungono in Perù, dove lavorano per tre settimane come volontari in un lebbrosario. Ripartono poi per Caracas, ultima tappa ed ultima pacca sulla spalla tra i due amici: Ernesto torna in Argentina, Alberto si ferma per lavoro in Venezuela. Non sono gli stessi ragazzi partiti nove mesi prima da Buenos Aires: le persone conosciute, con le loro storie e la loro vita, hanno contribuito ad arricchire il bagaglio di entrambi lasciando un segno indelebile di quell'avventura. Perchè questo è il film: avventura e amicizia.
Nel 2004, quando ho visto Diarios de motocicleta e i Marooon Five erano primi nelle hits mondiali, avevo "letto" soltanto il primo aspetto. Siamo uscite dalla sala, Giulia ed io, promettendoci che avremmo trovato il momento giusto per partire zaino spalla per nove mesi. Ovunque fosse, con o senza Poderosa. E ad entrambe sembrava ancora di sentirne il rumore, della Poderosa, mentre sfrecciavamo a finestrini abbassati su Viale Bligny per recuperare due kebab. Nel 2004 avrei venduto l'anima al diavolo - benchè sia atea - per seguire le orme di Ernesto ed Alberto e ritrovare la bussola di me stessa.

A fine 2009 mi trovo a ripensare a questo film. Ho ritrovato la mia bussola nonostante l'unica avventura che ho avuto il fegato di affrontare siano stati nove mesi di lavoro a Parigi. E mai come in questo momento venderei decisamente ancora l'anima al diavolo per poter partire con uno zaino ed una macchina fotografica. Nonostante questo, vedo in Diarios de motocicleta il risvolto dell'amicizia soprattutto. Lo sento distintamente, ora che Giulia ed io viviamo a un paio d'ore di aereo e non cantiamo più le hits con i finestrini abbassati ogni volta che ci pare, né facciamo la siesta dopo pranzo tra una lezione e l'altra o cinema più kebab house alla sera. Lo sento perchè nella vita non c'è niente di più rassicurante della presenza di qualcuno che ha esattamente le tue radici ma anche esattamente il tuo desiderio di scoprire. Con cui riesci a perderti in viale papiniano, ad escogitare un sistema assurdo per incrociarsi su rue de Rivoli, a farti gli stessi ragazzi restando sempre amiche, a lasciare emergere il tuo lato peggiore sapendo che l'altro è lì, pronto a tirarti per i capelli ed impedirti di fare cazzate. Oggi per lei è un giorno speciale e vorrei soltanto poter prendere un caffè insieme dopo per raccontarsi tutto, così come ci sono giorni in cui vorrei soltanto che la mia migliore amica fosse qui. Questo è il film ed anche la vita: viaggiare di fianco alle persone che contano, soffrire per le separazioni da loro, aspettare con ansia l'occasione di rivedersi, al Ligure per il marocchino di rito.










martedì 17 novembre 2009

Inglorious basterds

Pulp Fiction sta ad Inglorious basterds come il blu intenso del mare Egeo sta alle poco invitanti sfumature della riviera romagnola (non se ne vogliano eventuali lettori di quelle zone, popolate da gente simpaticissima e cordiale e molto organizzate turisticamente se uno non parte dal presupposto di andare al mare per fare anche il bagno).
La fantatrama su cui sono costruite le due ore abbondanti di pellicola mostra le "gesta" di un gruppo di soldati americani in Normandia, la cui missione è spargere il terrore tra le truppe d'occupazione nazista attraverso imboscate a cui seguono torture di vario genere. La strada dei basterds capitanati da un crudelissimo ed antipatico Brad Pitt si incrocia con quella di una ragazza ebrea, unica superstite della sua famiglia all'occupazione ed in particolare allo spietato colonello nazista Landa. Sushanna gestisce un cinema a Parigi sotto falsa identità e reincrocia il carnefice della sua famiglia quando il suo cinema viene scelto per la proiezione della première di un filmetto di propaganda del regime, a cui presenzia lo stesso Hitler.
L'evento offre la situazione perfetta per ordire un attentato ai vertici tedeschi: i basterds, in contatto con alcune spie, presenziano alla prima spacciandosi per improbabili italiani. Il colonello Landa, giustamente insospettito dall'italianità di Brad Pitt scopre il plot e scende a compromessi con gil americani: loro avrebbero portato a termine l'operazione, assassinando Hitler e in cambio lui avrebbe patteggiato una cospicua resa. Qui l'unico messaggio che ho tratto dal film: tra bastardi senza gloria si parla la stessa lingua e si crede nella stessa ideologia.
Parallelamente, Sushanna stessa ha organizzato la sua vendetta personale verso il nazismo antisemita, riempendo di tritolo la sala. Il filmetto propagandistico infatti si chiude con una ripresa inserita da lei, in cui svela agli attoniti presenti che saranno uccisi da un'ebrea. Il cinema salta in aria e anacronisticamente si compie il fantadestino dei vertici delle S.S.
Il cerchio si chiude con la fuga dal luogo del massacro dei basterds con Landa al seguito. Quest'ultimo si arrende agli ormai vincitori della guerra, confidando nel rispetto del loro impegno nell'assicurargli la resa patuita. Il rispetto della parola data, tuttavia, implicherebbe gloria: a Landa viene marchiato a fuoco sulla fronte il simbolo della svastika, come consuetudine dei basterds con i nemici catturati.
La violenza gratuita di diverse scene mi ha lasciato molto perplessa, così come la totale astoricità della trama. Nota positiva: ho visto il film abbracciata ad un enorme cuscino, dietro cui ho potuto nascondermi durante le scene più crude, quindi non ho avuto incubi postumi.

domenica 15 novembre 2009

Julie&Julia

Meryl Streep è una grandissima.
Ma dio, che film lento.
Premetto che l'ho visto in condizioni pessime: era un sabato sera in cui sono uscita con un tipo per la prima volta, per un "date". Il classico amico di amici che ci prova, ci prova, ci prova e alla fine cedi e dici, "Va bè, proviamo ad uscirci, dato che in questo periodo con il mio pseudo-ragazzo non gira proprio! Io di sicuro non ho bisogno di aspettare lui per uscire". Attenzione alle ripicche di questo stile: con buone probabilità vi troverete in una situazione di una noiosità imbarazzante.
Il prefilm è stata una cena nell'ottimo messicano in viale Montenero. Avevo poi proposto un cinema perchè stavo leggendo da una settimana critiche fantastiche su questo film, presentato al festival di Roma. Le fajitas miste del Cueva Maya ed il pensiero di una pellicola piacevole ad attendermi mi hanno dato lo slancio necessario a sopportare, con un mezzo sorriso stoico stampato addosso, il monologo del tipo: due ore circa. Il contenuto a grandissime linee verteva sulla sua sensibilità, amore verso il prossimo, e, in sintesi, vocazione al martirio. Per un'ex trader tanto buonismo prodigato in una sola dose ha l'effetto di un'intera Sacher sul picco insulinico di un diabetico: ma l'ora del film si avvicinava e sarei stata salva.
Quando finalmente sono partiti i titoli iniziali sullo schermo, mi sono rallegrata: benché fossi stordita dal monologo, mi sarei vista un bel film e io sono sempre felice quando si tratta di vedere un bel film.
Julie&Julia verte su due storie sviluppate parallelamente in due dimensioni temporali diverse (ricordate il bellissimo "The Hours"?), in cui la comunque magnifica Meryl si alterna ad una simpatichina Amy Adams nella narrazione della vita della celebre cuoca Julia Child e di una sorta di avvicinamento alla buona cucina da parte di una coppia newyorchese - si intuisce - cresciuta a burger and fries in un anonimo isolato del Queens.
Ricette e gag in cucina costituiscono la trama, che sarebbe anche stata divertente, se fosse durata la metà. Alla quarantesima ricetta - mi sembra fosse una crema pasticciera o forse un arrosto- non se ne poteva più: e ne mancavano ancora un centinaio.
Personalmente ho apprezzato moltissimo la Parigi anni cinquanta in cui era ambientata la vicenda di Julia Child e la nascita del suo manuale di cucina. I boulevards, i negozietti, les boulangeries, enfin Paris vaut bien un film ennuyant. E la Streep è camaleontica a livelli impressionanti: veste i panni di un'americana un po' goffa trovandosi a suo totale agio tra gli improbabili arnesi da cucina che si usavano all'epoca. Per me resta una delle migliori attrici contemporanee.
La storia di Julie, che per sfida con se stessa cucina in due mesi 180 ricette mi ha lasciato perplessa. Ma che sfida è mai questa? E se uno una sera in quel periodo avesse voglia di mangiare un panino al salmone affumicato o una tazza di latte e cereali? Che fretta c'è di fare gli chef ogni giorno per due mesi, quando oltre tutto si sono mangiati burger&fries per trent'anni?
Quando il film è finito io ero contetissima: avevo visto talmente tanto cibo che mi sembrava di aver nausea nonostante la porzione poco abbondante di fajitas e mi pregustavo la fine di quell'improbabile serata. Il pensiero del taxi che mi avrebbe strappata via dalle chiacchiere del tipo mi ha lì per lì impedito di pormi troppe domande sul film. A posteriori però, mi chiedo: Julie, oltre ad avere come minimo preso dieci chili e ad essersi sputtanata gli esami del sangue, cosa che negli USA non è così problematica forse..ma il giorno dopo l'ultima ricetta cosa avrà fatto? Forse la dieta della tisana drenante per i due mesi successivi.
E poi per favore: ridateci Miranda Presley, abbiate pietà!


martedì 20 ottobre 2009

He's just not that into you

Wake up: la verità è che non gli piaci abbastanza!Film illuminante, propedeutico ad una pronta reazione nel momento in cui dovremo affrontare l'ennesima delusione d'amore.
Quante volte ci siamo ritrovati a fissare invano il cellulare nella speranza che l'infatuazione del momento si facesse vivo? Quante volte abbiamo ripetuto a noi stessi che "se non chiama e non mi propone di uscire è solo perchè sta lavorando tantissimo ed è molto stressato? Quante volte ci siamo convinti che se non lascia il/la partner ufficiale per amare noi alla luce del sole è soltanto perchè è tanto sensibile e non vuole far soffrire nessuno, ma che è soltanto questione di settimane?
Il finale è quasi sempre riassumibile nel messaggio di questa simpatica commedia ad episodi: la verità è che non gli piaci abbastanza. Se dopo il primo "date" passano settimane senza che l'oggetto dei nostri desideri si faccia sentire, iniziate a prendere in considerazione di accettare l'invito a cena dell'amico della vostra collega, che da quando vi ha conosciuti vi intasa la casella di posta elettronica con i posts di cartoni della Disney che vi piacciono tanto. Sebbene vi sembri un personaggio poco tenebroso e non abbastanza "maledetto", forse dimostra uno spirito di iniziativa meritevole di attenzione, nonchè un interesse verso di voi decisamente più spiccato del bello-e-impossibile da cui state aspettando un segnale.
Se non ricordate più da quanti mesi siete diventati l'amante nascosto di una persona sposata, toglietevi dalla testa che quest'ultima lasci tutto e bussi alla vostra porta in sella ad un cavallo bianco per portarvi via con sé. Anche se continua a promettere che le carte del divorzio sono pronte, ma si preoccupa per la reazione dei figli, non lasciatevi ingannare: avete maggiori probabilità di successo se decideste di aprire una distilleria di alcolici in Iran.
E concludiamo con il "caso dei casi": il vostro partner e voi non andate a letto da un po' di tempo. Non entrate nel tunnel del "è molto stressato e io sono stata assente". Non fate l'errore di andare in deficit di autostima con pensieri del tipo "Forse la mia seconda scarsa con il push-up non è abbastanza", "Dovrei metterlo a dieta di ostriche", "Se facessi l'enorme sacrificio di rinunciare al mio pigiamino hello-kitty e mi travestissi da escort forse smuoverei qualcosa"...stronzate! La seconda scarsa è quella che vi permette di comprare bulimicamente tutti i top carini che vedete nei negozi, senza farvi il problema che potrebbero non reggere "le ragazze". Dimenticate le ostriche: ad una coppia che funziona di solito la fame viene dopo (u get what I mean). Toglietevi dalla testa il mito della biancheria: normalmente dovrebbe rimanervi addosso dai due ai tre secondi, dunque spendereste cifre folli che potreste tranquillamente investire in una fantastica pulizia del viso. Se tra due persone esiste un minimo di attrazione, scatta il desiderio di andare a letto insieme. E' chimico, quindi scientifico, quindi incofutabile: il primo fattore che rende promettente una relazione è la presenza di intesa sessuale, altrimenti conviene che vi reiscriviate al corso serale di yoga per occupare il tempo libero. Fate dunque attenzione alle continue contratture durante gli allenamenti o alle frequenti emicranie del partner: ad un'analisi più accurata potreste scoprire che si accompagnano a misteriose uscite serali per motivi di lavoro o con il "migliore-amico-a cui -è appena - morto il gatto - e si sente tanto depresso". Potrebbe per contro essere giunto il momento di appellarvi alla famosa pausa di riflessione e di partire per quel viaggio in Siria che sognate da una vita.
Consiglio la visione di questa commedia in compagnia degli amici del cuore, per capirsi quelli che chiamate nel cuore della notte perchè volete mandare un messaggino carino alla persona che vi piace e non sapete se chiuderlo con "bacio" o con "ti abbraccio": vi troverete a ridere sia per la comicità del film in sé, sia per il fatto che vi sembrerà di rivivere episodi vissuti tra amici o amiche. Insomma, chi di noi non ha tre amiche con cui si ritrova il terzo mercoledì del mese per una cena in cui l'argomento principe sono i rispettivi love affairs? Se l'amore è delicato come un cristallo di Boemia, l'amicizia complice - per fortuna - è lineare e solida come il marmo di Carrara.

venerdì 16 ottobre 2009

Whatever works - Basta che funzioni

Se avete otto euro in tasca e decidete di spenderli bene, dimenticatevi dei leggings lucidi che avete visto alla Alcott. Se c'è nella vostra vita un uomo bellissimo che fa lo stronzo (e di solito è così), resistete alla tentazione di utilizzare il capitale per un vassoio di fantastici biscotti al cacao e frutta secca sfornati da quel terrorista del panettiere di fronte, affogando i drammi sentimentali nella maestria dell'arte bianca: tanto i belli sono stronzi per definizione e voi vi sentireste ancora in colpa dopo sei ore passate nella sala cardio della vostra palestra. Controllatevi sul tasto più difficile: ignorate quegli orecchini ovaleggianti viola che si intonerebbero alla perfezione con il vostro nuovo pullover scollato e che vi stanno ipnotizzando dal vetro di una vetrina. Dire di no ad un paio di orecchini vistosi è un sacrificio incommensurabile ma per una volta provateci, pensando al vostro beauty-case che non si chiude più perchè è pieno di bigiotteria.
Dirigetevi verso il primo cinema sul vostro percorso (vi auguro che non sia uno di quei multisala che puzzano di pop-corn) ed investite il capitale in un biglietto per la proiezione di "Whatever works". Basta che funzioni, Woody Allen 2009.
Woody Allen finalmente è tornato in se stesso e ci ha regalato una pellicola sullo stile di Harry ti presento Sally, Pallottole su Broadway, Criminali da strapazzo.
La trama è un pretesto per liberare il sarcasmo cinico del protagonista - alter ego del director(Larry David): un eccentrico professore di fisica newyorchese (sì, tranquilli, è ambientato a New York) si sposa con un'improbabile teenager texana scappata di casa (Evan Rachel Wood). La vita della coppia scorre a suon di frecciate al veleno contro i pregiudizi dell'America delle provincie, finchè i genitori della ragazza bussano alla porta dell'appartamento di Brooklyn in cui vivono i due per riportare la figlia a casa.
La travolgente vita newyorchese (iniziate ad organizzarvi per il passaporto elettronico) libera la vacillante "American happy couple" dai clichés imposti dal perbenismo texano. Lei (Patricia Clarckson) scopre una vena artistica sopita ed un'inclinazione alla bigamia e lui (Ed Begley jr) capisce dopo anni il motivo della sua passione adolescenziale per gli sport di squadra: la doccia nello spogliatoio con i compagni di squadra.
Canovaccio per veri Alleniani insomma, zeppo di quelle battute atee, anticon ed antidem allo stesso tempo, qualunquiste e radicali, per cui personalmente da anni rido come una scema sentendole. Dopo la passabile saga londinese (Matchpoint, Scoop) e lo pseudo Almodovar del 2008 (Vicky, Cristina, Barcelona mi aveva abbastanza disorientata), dopo un anno e mezzo di recessione e crisi sui mercati finanziari, di congiunture economiche pessime e ricapitalizzazioni bancarie, questo film rappresenta la frontiera perduta dell'investimento nel titolo privo di rischio! Non indugiate, dunque, a posizionare i vostri otto euro "long" su questo film: il ritorno sull'investimento a fine proiezione farebbe impallidire di vergogna qualunque gestore di fondi.
Si esce infatti dalla sala con un fantastico senso di allegria addosso. Come aver comprato un paio di orecchini vistosi.

lunedì 5 ottobre 2009

Diari cinematografici

La vita reale è un casino per una reporter mancata che cerca di trovarsi a proprio agio nella stretta casella del metro-boulot-dodo versione milanese (che in realtà è uguale in tutto il globo ma dirlo alla parigina è by definition più chic).
In mancanza della possibilità di vivere viaggiando con un zaino ed una macchina fotografica, negli anni ho mandato giù il boccone amaro e mi sono messa a seguire il consiglio di John Lennon. Mind Gaming.
E' in una seduta fantastica di mind gaming, in un ufficio grigissimo di una noiosissima banca d'affari che un anno fa è nato questo blog.
Ed è in un pomeriggio piovosissimo che ho realizzato che, mind gaming, molto spesso il mio aereo è una sala cinematografica milanese: mi allaccio cinture invisibili seduta sulle poltrone bordeaux e viaggio attraverso le immagine di una bella pellicola.
Quindi perchè non raccontarlo, in attesa di trovare finalmente il sistema di essere una reporter (o meno poeticamente i soldi ed il coraggio per farlo).
Diari cinematografici è dedicato a C, che come me è uno incazzato nero ed ama il cinema. Nel senso che quando gli pare esce, va al botteghino e vede il film. Senza trasformarlo in un ennesimo rito sociale solo perchè qualche rompipalle un giorno ha deciso che al cinema si deve andare solo ed esclusivamente con qualcuno se no sei da assstente sociale.
Buona lettura, buona visione, merry mind gaming.

venerdì 24 aprile 2009

25 aprile sempre.

Era l'estate del 1944. Lontani dall'euforia provocata dall'Armistizio e ancora distanti dai giorni magici della Liberazione, l'afa di quelle giornate nelle campagne della Pianura Padana pesava come piombo sulle spalle. Gio', nome di battaglia Marinaio, osservava l'orizzonte dalle lenti del proprio binocolo: la radura che si estendeva fino al corso del fiume era attraversata da un silenzio profondo, sottolineato ulteriormente dai trentadue gradi umidissimi di quel pomeriggio.
Si chiese quanto sarebbe durata ancora quella vitaccia. Aveva diciannove anni, da oltre quattro era iniziata la maledetta guerra, da uno era sfollato in campagna. Si trovava con quel gruppo di uomini per cercare di riappropriarsi di quello che era suo: il diritto di vivere, il Paese, la possibilità di tornare a casa sua. Non ne poteva più della nebbia d'inverno e della calura in estate, voleva rivedere il suo mare, che cazzo! Non odiava i fascisti, né i tedeschi: lui era un vero signore, nonostante non avesse un soldo bucato, non era capace ad odiare, non lo interessava la violenza. Voleva solo che si togliessero dai coglioni e lasciassero che la gente facesse la propria vita liberamente. Fissò la strada che si diramava oltre il fiume. Cosparsa di esplosivo dai compagni.
"Marinaio, qualcosa si muove all'orizzonte?", sussurrò alle sue spalle Fulmine, imbracciando un fucile più grosso di lui.
"Tutto fermo". Per fortuna, gli venne da pensare. Era il più giovane del gruppo, non gli affidavano armi e nemmeno le avrebbe volute. Giò non era per la violenza, voleva solo la fine della maledetta guerra, tornare a lavorare sulle navi, sposare la sua ragazza e potersi permettere di comprare le paste dolci la domenica mattina. Cannoli e marsalini, i suoi preferiti. Invece ogni giorno rischiava di non vedere più il suo mare per colpa dei nazisti schifosi, che tornassero a casa una buona volta, e lasciassero che loro ricostruissero il Paese, lavorassero, avessero figli e poi nipoti! Cercò di pensare a come sarebbe stato vivere così a lungo da avere dei nipoti: portarli al mare a nuotare, raccontare loro storie inventate per vederli stupiti, insegnar loro che il bene più prezioso è la libertà e la vita. Qualcosa si muoveva all'orizzonte, cazzo, si vedeva qualcosa, era il commando tedesco che sapevano sarebbe passato. Trattenne il respiro. "Se diventerò vecchio abbastanza da avere nipoti, racconterò loro che da giovane pescavo tonni lunghi un metro e mezzo, altro che guerra!".

"Ma nonno, il tonno l'avete mangiato dopo? O l'avete rimesso in mare?". Gli occhi sgranati di quella bimba bionda, con la faccia sporca di gelato al cioccolato, lo intenerivano sempre, quando arrivava al termine di un racconto, ma si tratteneva dal ridere per mantenere la credibilità della storia. "Fulmine, il mio amico, che lo chiamavano così perchè correva veloce, lo rimise in mare".
"E tu, nonno? Ti chiamavano Giò o avevi un soprannome?".
"Mi chiamavano il Marinaio, perchè parlavo sempre delle navi su cui lavoravo da ragazzo. E quando mi pagavano due lire, sai cosa facevo io?".
"Certo nonno! Andavi a comprarti le paste dolci!". Disse la bimba bionda, una delle sue nipoti, soddisfatta di sapere la risposta a quella domanda del vecchio Giò.

venerdì 13 febbraio 2009

Panta rei

Lo sguardo fisso sui sei monitor di fronte a lei, si trovava mentalmente a tantissimi kilometri di distanza. Il cellulare non aveva squillato. Lo teneva a pochi centimetri dalla tastiera del computer e lo controllava ogni dieci minuti, sebbene sapesse quanto fosse inutile. Era partita da tre settimane e non aveva più avuto sue notizie. Lei non l'aveva cercato, si stava imponendo di non comporre il suo numero, di non scrivergli mail, di non inviare messaggi. Come gli aveva detto: era stanca di lui. Eppure.
Quella decisione studiata con cui aveva dato il via alla "pausa di riflessione" era stata una posa, sostenuta dal poco orgoglio che le era rimasto dopo i mesi estenuanti di quella relazione. Lui aveva alzato le spalle, facendo il finto dispiaciuto. Finto, perchè i giorni erano passati, le settimane scorrevano piano e un silenzio desolante si era instaurato tra loro. Era l'apice della sua indifferenza. "E' un fottuto egoista", si ripeteva mentre cercava di prezzare un collar 90 - 120 su Unicredit. Sicuramente c'era un'altra, più Barbie, più arrendevole, più adorante di lei con cui consolarsi, ammesso che non ci fosse sempre stata. La vibrazione del cellulare le fece andare il cuore a ritmo impazzito. Giulia: "Ciao bella, come stai? Ci vediamo questa sera?".
Aveva ragione la sua migliore amica, quando le diceva che lui era geloso del fatto che tra loro due, quella che emergeva era lei. Certo, questo lo diceva Giulia, mentre la vedeva seduta sul davanzale, appoggiata al muro, che piangeva con la scatola di kleenex sulle ginocchia. In fondo, però, lo pensava anche lei: lui non sopportava che qualcuno gli rubasse il palcoscenico e detestava il fatto che lei fosse com'era. Ribelle e libera. Cercava disperatamente la razionalità, di fronte alle frecce rosse del Bloomberg, mentre sentiva lacrime al mascara rigarle il viso.

Era lontanissimo quel ricordo, pensò, mentre si lasciava il Naviglio Grande alle spalle. In quel pomeriggio di sole invernale lui era una foto sbiadita della memoria. Le venne da ridere al pensiero delle serate passate con lo sguardo ipnotizzato dal cellulare immobile, in attesa di un suo segnale. L'amore, vero, sarebbe tornato a scorrere nelle sue vene, sentiva. E non sarebbe stato associato a lui, a cui pensava con tranquilla indifferenza.
Panta rei, anche lui.

lunedì 12 gennaio 2009

Luglio 1933, sognando.

C'erano giorni in cui pensava di soffocare, da tanto era umido il villaggio sperduto in cui era confinata ed esistere le sembrava un compito oneroso ed opprimente. Latifondi coltivati a cereali, cavalli, bestiame e nient'altro: questo era quello che vedeva da quando apriva gli occhi a quando andava a letto, stremata dalla monotonia di una vita fatta di lavori domestici ed ordini ricevuti in malo modo. Era stanca di vivere ai margini, tra estranei saccenti e una famiglia arrendevole e rassegnata. Lei era altro, voleva vivere di emozioni, voleva essere felice. Non era come sua madre e le sue sorelle, che pensavano che il mondo finisse al confine del latifondo della famiglia per cui lavoravano, che si accontentavano di avere una stanza minuscola da dividere in cinque, che vivevano in un torpore perenne. La criticavano in continuazione perché viveva in un mondo di sogni irrealizzabili, lontano dalla realtà, ma sbagliavano: lei era viva e avrebbe cambiato le regole di un gioco che non aveva scelto. Sarebbe diventata un'attrice. Avrebbe trovato il modo di andarsene da quel postaccio, dove era la bastarda figlia di nessuno, sarebbe fuggita verso la capitale, dove c'erano strade, palazzi, auto e vestiti. Dove avrebbe lavorato per migliorarsi, conoscere persone di classe, realizzare le proprie ambizioni: avrebbe finalmente potuto essere se stessa. Avrebbe dimostrato a sua madre che i sogni si avverano, se li si insegue: sarebbe diventata una donna rispettata ed amata. Soprattutto, avrebbe messo duecento chilometri di distanza tra lei e quel postaccio abbandonato.
Accarezzo' il grosso cane dal pelo scuro che gironzolava per il cortile, immersa nei suoi pensieri.
"Vedrai cagnolone, presto me ne andro' da Junin. Partirà un treno diretto verso la capitale e io saro' a bordo. A Buenos Aires lavorero' come attrice o cantante, non sarà facile all'inizio, ma riusciro' a conquistarmi la vita che desidero: diventero' famosa, avro' un intero guardaroba di vestiti da sera per le serate importanti e mi tingero' di biondo, come le statunitensi. Vedrai cagnolone, un giorno la gente saprà chi sono e mi chiederanno autografi". Sorrise felice, immaginando di sentirsi chiamare da una folla di ammiratori adoranti "Evita, Evita".